a e Ml Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia Le registrazioni di Diego Carpitella e Alberto Mario Cirese (1954) a cura di Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi © Musiche tradizionali del Molise ■ Le registrazioni di Diego Carpitella e Alberto Mario Ci rese (1954) I ossalto (Gb), 1 maggio 1954 Ecchite maje 3.44 Tu rondinòtto e che in aria voli 1.26 Ninna-ò ninna ninna ninna ninnarèlle 1.08 Sò jute a Rome 1.22 E la còccia dell’Incornata 1.19 E una sò le stelle 1.01 E San Michele Arcangelo 0.44 Rinate fanne nòve 1.37 E tu quanta vòlte mmé ci fai venire 4.37 Tenghi nò favicella 1.32 Vaglie alla vignarèlla 1.26 Gente de Frusinone signur’e cuntadine 1.35 Chi è chi è che bussa 1.17 C’erano tre sorelle 1.07 Signor capitano fateme nu favore 1.43 Su su ballate 0.49 Figlia di gran zignore 1.19 S’ha mangiata la ’nzalatina 1.14 L’aricamava nu fazzolètte 1.12 Trup trup truppitte 0.21 E la partenza di Cristo 2.03 Quando Cristo andava per mare 0.55 Quanta bene mi ci fatte 1.09 Ururi (Cb), 2 Maggio 1954 Ni ni ni nin a kor E gè bukurè òjal mèma 26. E mirrni Ijhjèzèn tre brac E xha ke nu^e ti do veg E Kostdndilri i vogél Mèm /tfièjpr ke.'zémèra m’u plas / Kapileza gè ve 1.20 0.30 1.28 2.00 1.44 2.44 Iniziativa editoriale promossa da Foto di copertina Alberto Mario Cirese Master audio Paolo Modugno Progetto grafico Daisy Jacuzzi © Z011 Accademia Nazionale di Santa Cecilia - Fondazione © Z011 Squilibri srl Viale dell’Università, 25 - 00185 Roma e-mail: info@squilibri.it sito: www.squilibri.it Provincia di Campobasso Biblioteca Provinciale “P. Albino’ II edizione rivista e aumentata giugno 2011 ISBN: 978-88-89009-33-8 C S> xtòlé>ì WOS a em I Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia Musiche tradizionali del Molise Le registrazioni di Diego Carpitella e Alberto Mario Cirese (1954) a cura di Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi Indice La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia...................... 7 1. I luoghi. I suoni................................................ 8 2. Le musiche raccolte a Fossalto.................................. 11 3. Le musiche albanesi ............................................ 14 Gli studi sulle espressioni arbereshe del Molise: una lunga e frammentaria continuità ................................ 33 1. 1primi interessi................................................. 35 2. Una possibile danza nuziale. Ascoli, Marchiano, Lambertz........ 38 3. Canti di fidanzamento e di nozze: il tamburello e altri strumenti ... 43 4. Il matrimonio di Costantino .................................. 47 5. Morte, matrimonio e nascita .................................. 49 6. Alcune caratteristiche musicali ................................ 51 Al mondo molisano degli affetti e degli studi: intervista ad Alberto Mario Cirese ................................. 75 Alberto Mario Cirese, A cinquantanni di distanza.................... 82 Riferimenti bibliografici .......................................... 86 I documenti sonori ............................................... 99 Le registrazioni di Diego Carpitella e Alberto Mario Cirese (1954) ..................................... 103 Appendici Diego Carpitella, Sulla musica popolare molisana .................. 145 Alberto Mario Cirese, La Pagliara maie maie........................ 149 Graziadio Isaia Ascoli, Canti albanesi del Molise.................. 157 Errico Melillo, Costumanze molisane: Montecilfone, Portocannone, Ururi ............................... 163 Errico Melillo, Costumanze molisane: Campomarino ................ 169 Nicola Savino, I canti dei paesi albanesi del Molise............. 173 Le fotografie ................................................... 181 Indice dei nomi ................................................. 197 Maurizio Agamennone La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia Diego Carpitella e Alberto Mario Cirese erano giovani — ed entusiasti, per la naturale esuberanza dell’età e per altri motivi ancora — quando realizzarono la Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia (AEM)1. La breve e intensissima rilevazione fu condotta nei giorni 1 e 2 maggio 19542, presso le località di Fossalto, Ururi e Portocannone, in provincia di Campobasso. Musicologo l’uno e studioso di tradizioni popolari l’altro, proprio nei primi anni Cinquanta cominciavano le loro prove sul terreno: solo in seguito, nei decenni successivi, e lungo un percorso accademico non propriamente facile3, sarebbero diventati due indiscussi maestri dell’etnomusicologia e dell’antropologia, in Italia e in Europa, con generazioni di allievi formatisi e attivi nella scia del loro magistero. Sia Carpitella che Cirese non erano nuovi a collaborazioni con l’allora Centro Nazionale Studi di Musica Popolare (che si sarebbe trasformato in seguito negli Archivi di Etnomusicologia) dell’Accademia di Santa Cecilia, e avevano già effettuato alcune ricerche di grande interesse: il primo aveva vissuto una esperienza fondativa — e anche iniziatica, per lui - nel 1952, insieme con Ernesto de Martino, in Basilicata, sulle tracce della lamentazione funebre lucana (Raccolta 18/AEM)4; due anni dopo, dal 15 al 23 aprile 1954, appena una settimana prima che fosse realizzata la Raccolta molisana, era stato impegnato sul terreno, ancora con l’etnologo napoletano, per una rilevazione sulla musica delle comunità albanesi della Calabria (Race. 22/AEM)5; Cirese, per parte sua aveva esplorato a fondo la Sabina, sua terra d’elezione - insieme con l’amato e avito Molise — raccogliendo numerosi documenti sonori di eccezionale interesse (Race. 16/AEM, 1951; Race. 21/AEM, 1953)6. Si trovarono perciò insieme in Molise, per un primo lavoro comune sul 7 7 Maurizio Agamennone terreno: ebbero cosi l’occasione di consolidare una forte amicizia che li avrebbe accompagnati per lungo tempo e divenne, quindi, una relazione fraterna, costruita quasi quotidianamente nelle aule della Sapienza di Roma, per protrarsi fino alla scomparsa prematura di Carpitella7, nel 1990. Ne conservarono, evidentemente, un’impronta emotiva molto forte: Carpitella inserì la registrazione sonora della “Pagliara” di Fossalto nei dischi pubblicati con Alan Lomax nel 1957, esito editoriale della lunga campagna di ricerca condotta insieme, nel biennio 1954/55, e vi pose anche una delle immagini riprese da Cirese durante la stessa rilevazione8. Per Cirese, inoltre, immergersi profondamente, allora, nella ritualità stagionale e nelle fluenti espressioni vocali di Fossalto deve essere stata un’esperienza particolarmente emozionante, tale da marcare profondamente la memoria affettiva: il paese rappresentava la comunità di provenienza della sua famiglia e, pure, il luogo di irraggiamento di certe piste di identità culturale e, anche, linguistica, considerata la produzione poetica del padre Eugenio, alla quale Alberto Mario si è sempre mostrato molto vicino, sia nel registro espressivo che nella cifra stilistica. Nell’occasione, i due giovani studiosi ebbero altresì l’opportunità di accrescere la documentazione su generi e modi performativi che stavano assumendo un ruolo centrale nella loro riflessione: ne trassero altresì alcuni modelli analitici e ipotesi interpretative che, in seguito, avrebbero segnato profondamente una serrata azione di ricerca ed elaborazione teorica, il loro lungo e fertile magistero. 1. I luoghi. I suoni La Raccolta molisana degli AEM dell’Accademia di Santa Cecilia, che in questa sede si pubblica in un CD allegato al volume, è divisa nettamente in due parti e comprende 48 documenti sonori: 23 sono stati raccolti a Fossalto, l’unica comunità di espressione romanza soggetta a indagine in quella circostanza; il giorno scelto per la rilevazione (primo di maggio) non fu affatto casuale: è l’occasione in cui, a Fossalto si teneva il rito della “Pagliara”, che poteva essere documentato con succes- 8 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia so e coerenza soltanto in quella data. Gli altri 25 documenti sonori presenti sono stati raccolti presso le comunità albanesi di Ururi e Porto-cannone che ospitavano allora - è cosi ancora oggi - popolazioni arbé-reshe (di lingua albanese), ivi riparate e insediatesi dalla fine del XV see., dopo la morte di Giorgio Castriota “Skanderbeg”, a causa della definitiva conquista e occupazione da parte degli Ottomani del territorio albanese di oltre-adriatico, che si sarebbe protratta fino al 1912. In Molise attualmente i paesi abitati da popolazioni di lingua albanese sono quattro: Ururi (in albanese: Rur), Portocannone (Porkanun), Campomarino (Kèmarin), Montecilfone (Munxhfun). Se si considera questa ripartizione in due blocchi nettamente distinti e fortemente connotati sul piano culturale, nonché strettamente circoscritti ad aree territoriali assai limitate, la Raccolta 23 non si può ritenere pienamente rappresentativa delle espressioni musicali dell’intera regione: si è trattato, piuttosto, di una esplorazione a carattere strettamente monografico, che conserva, fortunatamente, repertori molto specifici, non altrimenti documentati e largamente in disuso oggi. La Raccolta 23 costituisce, perciò, una documentazione assai preziosa, oltre che per i più evidenti interessi dialettologici, musicologici e linguistici (soprattutto nei documenti albanesi), anche sul piano storico-culturale: infatti, consente di ricostruire — e di immaginare, o rievocare — la vita sociale e cerimoniale (ancora attiva e funzionale) propria di comunità rurali, in un contesto largamente pre-industriale, prima del declino della cosiddetta “civiltà contadina”; si consideri, soprattutto, la documentazione di afferenza femminile, largamente preponderante: dai canti destinati a un’azione ludica o magica, oppure alla interazione con i bambini e alla ritualità delle nozze, dalle canzoni per narrare storie, a certe espressioni connesse ad attività di lavoro nei campi, alle forme di pianto; si tratta, come si intende, di azioni performative effettuate, e documentate, in uno scenario socio-culturale e ambientale che appartiene più ampiamente a una storia regionale possibile, che non a una etnografia sperimentabile attualmente. Tutti i documenti sonori rappresentano espressioni cantate, prevalentemente senza la presenza di strumenti: canti non accompagnati, quindi, 9 Maurizio Agamennone in esecuzione solistica o in gruppo. I generi rappresentati risultano molto numerosi, la maggior parte dei quali, come si è detto, non più praticati ed eseguiti da molto tempo. In relazione a una possibile classificazione per generi, i documenti di area romanza, raccolti unicamente nella località di Fossalto, possono essere così definiti: a. canzone narrativa (8 brani); b. inno e canto devozionale (4); c. canto all’altalena (2); d. canto di questua (2); e. canto durante il lavoro (2); f. serenata (1); g. filastrocca infantile (1); h. lamento funebre (1); i. scongiuro (1); j. canto scherzoso (1). I documenti di area albanese, raccolti nelle località di Ururi e Porto-cannone, possono essere così classificati: a. canto satirico (4); b. canto di nozze (3); c. canto di fidanzamento (3); d. ninna nanna (2); e. lamento funebre (2); f. tarantella (2); g. canto per la corsa dei carri (2); h. canzone narrativa (2); i. scongiuro (1); j. canto d’amore (1); k. serenata (1); /. filastrocca per far ballare i bambini (1); m. canto infantile (1). 10 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia 2. Le musiche raccolte a Fossalto Come si è già accennato, la collocazione calendariale della Raccolta fu l’esito di una scelta sicura: l’occasione del primo di maggio era infatti propizia per documentare i suoni di un rito di rinascita primaverile, “la Pagliara” di Fossalto, la cui occorrenza cerimoniale cade proprio in quel giorno; si tratta, assai in breve (il lettore ne potrà leggere una descrizione dettagliata ed esauriente nel saggio di Alberto Mario Cirese ripreso in appendice nel presente volume), di un percorso di questua che attraversava — e “marcava” — il paese e il suo territorio rurale: un cantore e un suonatore accompagnavano un altro uomo che indossava — e perciò risultava completamente invisibile - una macchina (una sorta di involucro) a forma di cono intessuta di rami, foglie, fiori e altri materiali vegetali (foto 1-7). La musica della “Pagliara” prevedeva l’uso, oggi estinto, di un tipo particolare di zampogna con due chanter e un bordone, tutti di canna (foto 11), uno strumento di piccole dimensioni, altrimenti sconosciuto non solo nella regione, ma, per quanto ne so, in tutta la penisola9: la piccola zampogna fossaltese sembrerebbe, dunque, costituire un unicum nel patrimonio etno-organo-logico italiano. Negli ultimi anni si è inteso riprendere la tradizione della “Pagliara”, ma la piccola zampogna fossaltese di canna è stata sostituita con una coppia di ciaramella e zampogna, composta prevalentemente da musicisti provenienti dall’area di Scapoli (Isernia), ben lontana da Fossalto. Perciò la Raccolta 23 risulta ancora più preziosa: oltre la “Pagliara” (CD/traccia 1), vi sono documentati altri due generi di canto accompagnato dalla piccola zampogna di canna: una maitenata (canto augurale di inizio d’anno) e una serenata. I tre brani della Raccolta (CD/tr. 1, 8 e 9), dunque, sembrano rappresentare gran parte del repertorio tradizionale ascrivibile allo strumento, che si rivela ideale per accompagnare la voce, con esiti performativi interessanti, rilevabili soprattutto nella serenata fossaltese (CD/tr. 9); l’estrema iterazione e frammentazione cui sono sottoposti i versi, nella trascrizione - alla lettura sulla pagina scritta — possono suggerire la sensazione di un testo disgregato e informe: al contrario, i versi della serenata risultano efficacemente squadrati e messi in forma nell’intonazione cantata, attraverso il profilo e le regole della melodia; nella par li li Maurizio Agamennone te vocale, una simile condizione costituisce il presupposto per alcune procedure di improvvisazione: le sillabe del testo poetico (oltre le espressioni obbligate, relative all’occasione: finestra, sospirare, affacciare, core gentile, cara sposa ecc.) sono utilizzate prevalentemente quale supporto per l’articolazione ritmica del profilo melodico, e come linee di distesa vocale nei suoni tenuti in apertura di frase, sul picco melodico e in chiusura; ne derivano, ancora, alcune singolari vocalizzazioni, troncature, contrazioni, apparentemente incongrue, nel parlato, ma piene di senso, nel canto10. La documentazione fossaltese risulta particolarmente marcata dalla presenza e dall’azione femminile. Il genere più presente è costituito dalle canzoni narrative, retaggio proprio, se non esclusivo, delle donne, nella loro specifica vocazione di affabulatrici: alcuni dei documenti molisani costituiscono adattamenti locali per testi di probabile provenienza settentrionale, ma di larghissima circolazione anche nella penisola (CD/tr. 15 e 17). Pure di esclusiva pertinenza femminile è la lamentazione funebre11 (in dialetto molisano: repuòte), rappresentata da un testo destinato al cordoglio di una figlia per la morte della madre (CD/tr. 23); l’esecuzione fossaltese è caratterizzata dall’alternanza del canto (“discorso” della figlia rivolto alla madre) con un breve episodio di parlato (invocazioni stereotipe) e da alcuni tratti peculiari del genere: profilo discendente in un ambito melodico ristretto, motivi iterati, formule verbali stereotipe. Ancora tipici della tradizione molisana sono i canti all’altalena (denominati zaziambre nella parlata di Fossalto: cfr. CD/tr. 2 e 4), simmetrici nella fraseologia melodica, che risulta coerente con l’andamento del gioco e funzionale all’esecuzione a voci alterne. Negli inni devozionali (CD/tr. 5-7) emerge una polifonia vocale intermittente, pur instabile nel parallelismo per terze, come accade frequentemente in esecuzioni di gruppo caratterizzate da una partecipazione indefinita e fluttuante di cantori appartenenti a entrambi i sessi e di età diverse, e come è, ancora oggi, nell’esecuzione di repertori abitualmente eseguiti in marcia, nel corso di pellegrinaggi. La ninna nanna12 fossaltese (CD/tr. 3) risulta assai interessante per la combinazione di ritmi che si determina fra la melodia della voce e la 12 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia percussione sulla culla; la pulsazione generata da questa azione (spinta sulla culla) procede secondo un ritmo dispari (approssimativamente misurabile in cinque tempi: 2+3), probabile conseguenza della asimmetria bicrona del gesto stesso: l’impulso di spinta, che imprime un’energia maggiore alla culla, risulta accelerato rispetto all’impulso successivo, che invece agisce quasi inerzialmente, di appoggio, sulla pressione precedente; la melodia vocale sembra condividere — in maniera piuttosto fluida — gli impulsi ritmici della percussione, generalmente corrispondenti alle sillabe accentate dei versi, con una più ampia fluttuazione ritmica — che, episodicamente, sembra incrociarsi con il ritmo della percussione — alle estremità (inizio/fine) del verso13. I canti di lavoro14 fossaltesi compresi nella Raccolta rappresentano due modalità distinte della vocalità espressa durante le attività agricole, largamente rilevate anche in altre aree della penisola, e probabilmente connotanti - pur nelle varianti locali — l’azione individuale e l’essere gruppo durante il lavoro nei campi15: a. un’emissione lenta e con alternanza delle voci, la cui portata acustica poteva impegnare uno spazio assai ampio (“alla stesa”), con possibile risposta, a distanza, in assetto monodico (CD/tr. 10) o combinazione polifonica, da parte di singoli o gruppi al lavoro su altri fondi16; b. un andamento più mosso, con intonazione monodica del primo verso (o primo distico); combinazione parallela e cadenza per terze17 nell’iterazione del secondo verso (o secondo distico), mediante l’esecuzione polifonica di gruppo (CD/tr. 11). Pure assai interessante mi pare la sequenza di formule di scongiuro rilevata a Fossalto (CD/tr. 22): destinate a contrastare una patologia della pelle (erisipela o risipola), intestinale (vermi) e una malìa magica (malocchio), sono realizzate con una fonazione serratissima, oscillante tra intonazione orizzontale (più vicina al parlato) e profili cadenzali discendenti (più vicini al canto); a sostegno dell’azione di cura della sofferenza - che ha un carattere magico diretto, anche nel trattamento di patologie sicuramente visibili, ma che si immagina potesse essere accompagnata dall’assunzione di erbe officinali specifiche — è invocato co- 13 Maurizio Agamennone stantemente l’intervento di specifici santi ausiliatori (santi Pietro e Paolo, san Giorgio); peraltro, dai suoni, e ipotizzando lo scenario di una esecuzione in atto, si può intuire che l’azione verbale potesse essere associata a gesti di manipolazione e imposizione. 3. Le musiche albanesi Rispetto alla tradizione fossaltese, la documentazione albanese raccolta in Molise rivela caratteristiche spiccatamente diverse18. Intanto, sono presenti alcune preziose espressioni cantate connesse al rituale di nozze (partenza e vestizione della sposa, preparazione del letto), raramente documentate in altre fonti. Si tratta, prevalentemente, di canti monodici; l’assenza di un’esecuzione polifonica - che sembrerebbe quasi irrinunciabile per i canti di nozze, considerato l’ampio rilievo sociale del rito e l’estesa partecipazione allo stesso, come indicato da diverse fonti etnografiche — potrebbe essere intesa come l’indicatore di un probabile declino delle forme tradizionali, nelle espressioni raccolte in quella occasione. Ma si tratta solo di un’ipotesi interpretativa: in effetti, la polifonia non è una procedura obbligata nei canti di nozze e la sua assenza non è, necessariamente, indice di una disgregazione espressiva, di una perdita. Nella regione settentrionale del territorio nazionale albanese, in area di dialetto geg, risultano attestati repertori monodici (non polifonici) di nozze, accompagnati dal tamburello a cornice19; una simile coincidenza, peraltro, potrebbe indurre a una verifica sulla provenienza, o l’origine, delle comunità albanesi insediatesi in Molise: si consideri, a tal proposito, il “canto per la vestizione del letto” compreso in questa Raccolta (CD/tr. 40), che presenta un modo di esecuzione analogo (voci unisone in assetto monodico, pur se con qualche “ispessimento” eterofonico, con tamburello a cornice)20. Lo stesso Carpitella, per parte sua, descrivendo i documenti raccolti in Molise nel suo saggio sulla musica popolare molisana — che si ripropone in appendice a questo volume - così ebbe a sottolineare: “Ad Ururi o a Portocannone, [...], è stato possibile, sì, registrare dei canti legati un tempo al rituale delle nozze, ma solo tra persone anziane, ed ormai ad uno 14 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia stato di disgregazione”21. Come si ricorderà, Carpitella aveva già raccolto numerosi canti di nozze in Calabria, presso le locali comunità albanesi22, e ne aveva colto una maggiore “freschezza esecutiva”, rispetto allo stato della documentazione albanese rilevata in Molise; attribuì quella più sicura conservazione alla persistenza, in Calabria, del rito greco - scomparso, invece, in Molise, nei primi decenni del XVIII secolo — che avrebbe assicurato una maggiore continuità ad alcune procedure cerimoniali23. Tuttavia, in molti documenti albanesi molisani si rilevano pure altri tratti di arcaicità e “alterità”: la “grana” della voce, soprattutto nelle espressioni femminili, risulta sensibilmente diversa rispetto ai documenti fos-saltesi, e sembra richiamare alcune marcature timbriche rilevabili in regioni più meridionali della penisola, pur in aree sicuramente romanze e non soggette a possibili scambi con comunità alloglotte. In questo senso, la documentazione albanese-molisana potrebbe effettivamente costituire un frammento di quel “comune denominatore con i Balcani che è possibile riscontrare in tutto il versante orientale della penisola italiana: e non solo nei paesi (come quelli albanesi, slavi o greci) in cui l’influenza è determinata e precisata storicamente”24, un filo rosso che Carpitella cercava intensamente di individuare, alla metà degli anni Cinquanta. E in effetti, l’Adriatico, stretto e poco profondo, non è mai stato uno spazio invalicabile, solcato da navigli e imbarcazioni di tutti i tipi, con le genti più diverse - e non necessariamente, o non solamente, in fuga o diaspora. D’altra parte, la stessa piccola zampogna di Fossalto, con la sua conformazione organologica, sembra richiamare tipi presenti in altre regioni di oltre-Adriatico: con questo, non intendo affatto ipotizzare filiazioni dirette o scambi recenti, ma, piuttosto, suggerire la possibilità di alcune relazioni profonde, remote e antiche, di cui ancora affiorano - in maniera carsica, si potrebbe dire - certe testimonianze sul terreno etnografico, lungo la dorsale appenninica, in aree interne, anche piuttosto lontane dal mare, e non esclusivamente — integrando, a tal proposito, la riflessione di Carpitella - nel versante orientale della penisola. I canti albanesi che esprimono la ritualità familiare, della casa e del ciclo della vita, anch’essi di esclusiva pertinenza femminile, risultano per- 15 Maurizio Agamennone ciò particolarmente interessanti proprio perché rivelano alcune specificità locali unitamente a tratti più ampiamente condivisi. Per le nozze, il canto che marca la preparazione del letto (CD/tr. 40) rappresenta simbolicamente la partecipazione collettiva all’evento nella combinazione eterofonica delle voci e neH’impulso coreutico suggerito dal ritmo del tamburello, secondo modi di esecuzione rilevabili, come s’è visto, anche nelle regioni settentrionali dell’Albania. Le due ninne nanne presenti25 (CD/tr. 24 e 35) mostrano alcuni tratti stilistici tipici del genere (ad es., l’iterazione incantatoria di strutture elementari); nella ninna nanna di Portocannone (CD/tr. 35), la parte vocale e la percussione sulla culla sembrano partecipare di uno stesso ritmo, segnato da accenti condivisi (marcati da sensibili incrementi di intensità nella parte vocale), con un comune andamento ritmico dispari (anche in questo caso, probabile conseguenza di un omologo gesto bi-crono e asincrono), pur se più lento e fluttuante rispetto alla ninna nanna fossaltese (CD/tr. 3) precedentemente descritta: ma si tratta di procedure non proprio infrequenti — insisto: marcate dall’azione del corpo e dalla funzionalità motoria, in circostanze analoghe - e non certo esclusive dell’una o dell’altra area linguistica. La lamentazione funebre (vajtim, in albanese) è documentata con due testi provenienti da entrambi i paesi albanofoni: il breve esempio di Portocannone (CD/tr. 32) costituisce una testimonianza interessante del bilinguismo praticato dalle comunità alloglotte26, pur in un momento cerimoniale intenso e riservato; il lamento di Ururi27 - più lungo, e an-ch’esso monodico, come gran parte degli esempi rilevabili nella penisola italiana e nelle aree alloglotte — conserva una traccia della partecipazione familiare e del vicinato all’elaborazione del dolore nella sanzione vocale di gruppo, posta come marca conclusiva alla fine di ogni sequenza del pianto: Uuuuh ke isht e fèrtet [Uuuuh che è vero], Uuuuh ke isht e fértet gjithsena [Uuuuh che è tutto vero] (CD/tr. 47). L’osservazione del pianto operata in area molisana da Carpitella fix piuttosto significativa nella riflessione dello studioso: consolidava le impressioni acquisite precedentemente, durante l’esperienza lucana, con Ernesto de 16 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia Martino, e preparava la strada alla rilevazione delle testimonianze sa-lentine (con Alan Lomax, a Martano nell’agosto 1954, in area ellenofo-na; successivamente, in località di espressione romanza, con Ernesto de Martino, nel giugno/luglio 1959, e da solo, nel giugno 1960). Piuttosto singolare, e sorprendente, appare l 'aria di famiglia”28 che assimila il profilo melodico dei canti di nozze (CD/tr. 26, 27, 40) e del lamento di Ururi (CD/tr. 47). Una simile familiarità può indicare come una stessa struttura musicale (intesa, evidentemente, quale dispositivo formulaico, come un modello che costituisce parte di una competenza cognitiva incorporata, utile e disponibile per orientare l’azione performativa) potesse essere adattata a momenti cerimoniali distinti (per la vestizione della sposa, per la sposa che lascia la casa, per la vestizione del letto), e prestarsi a modi performativi diversi (solo e gruppo), pur interni al medesimo contesto rituale (celebrazione delle nozze). Inoltre, questa sensibile “aria di famiglia”, che apparenta i profili melodici dei canti di nozze e del lamento di Ururi, può indicare come l’elaborazione della medesima struttura musicale potesse ottemperare a necessità apparentemente lontanissime (la ritualità delle nozze e l’elaborazione del lutto), pur nella cornice comune della più larga ritualità della famiglia e della casa e, forse, soprattutto, nella esclusiva pertinenza femminile dell’esecuzione. Ancora, può rivelare come, nelle culture tradizionali, si potesse percepire una certa prossimità psicologica tra l’addio alla sposa (comunque esperienza di distacco, pur se non irrimediabile) e l’addio ai morti (distacco definitivo e irrisolvibile), una contiguità emotiva elaborata con soluzioni espressive anch’esse contigue, coerentemente29. Pure assai singolari, e poco frequenti nella documentazione sonora, risultano i due balli cantati con l’accompagnamento del tamburello (CD/tr. 29 e 36), entrambi in ritmo binario piuttosto che ternario (più frequente, questo, in altre danze della penisola), superstiti testimonianze etnografiche di un uso antichissimo in tutto il Mediterraneo: il canto e il ballo sorretti e alimentati dal tamburo a cornice, non raramente affidati a un solo esecutore, che canta e contemporaneamente batte il tamburo (CD/tr. 36). Comunità contigue nel medesimo territorio, la romanza e l’albanese, pur 17 Maurizio Agamennone demograficamente molto squilibrate, non vivono reciprocamente sorde e indifferenti l’una all’altra: cosi vicine, nel tempo hanno attivato, subito, promosso, e tuttora producono scambi di ogni tipo; mi pare se ne possano cogliere alcune tracce musicali: per esempio, nella “canzone di Maria” (E ti Mari [CD/tr. 41]), in cui l’iterazione dei versi e la combinazione polifonica fra le voci (parallelismo, pur instabile, e cadenza per terze) risultano molto vicine agli usi fossaltesi già citati, e ad alcune procedure rilevabili con maggior frequenza in aree ben più settentrionali. Fra le espressioni a voce sola, e ancora nell’ambito delle procedure del corteggiamento, emergono il canto di fidanzamento di Ururi (CD/tr. 39), la serenata (CD/tr. 34) e il canto d’amore di Portocannone (CD/tr. 33): quest’ultimo costituisce un esempio veramente mirabile di monodia, nell’ampio e originale profilo melodico30, e per le tenere immagini evocate nei versi. A fronte di una larghissima prevalenza di espressioni femminili, nella documentazione albanese sono tuttavia comprese alcune monodie, di gusto satirico, in esecuzione maschile (CD/tr. 42-44), e due canti di esclusiva pertinenza maschile che appartengono al cerimoniale di preparazione e festeggiamento per le corse di carri, o alla narrazione di vicende e imprese occorse nelle stesse occasioni (CD/tr. 38 e 45), così diffuse ancora oggi nel Basso Molise, in primavera avanzata, spazio esclusivo di ardimento e forza giovanile31 (foto 12-18, 21-23): in questa cornice rituale, il canto maschile di gruppo (che può estendersi fino a comprendere tutti gli appartenenti a una fazione: centinaia di persone) può esprimere auspici per un felice esito della competizione, esultanza per la vittoria conseguita e scherno per gli avversari sconfitti — coetanei, ma appartenenti ad altra fazione32. Per quanto concerne i repertori epici, la canzone di “Costantino il piccolo” (CD/tr. 28) può essere intesa come una specie di inno degli arberes-hè, per la sua ampia diffusione presso le comunità insediate in Italia33. Infine, similmente a quanto rilevato per gli scongiuri di Fossalto si può dire per la sequenza di scongiuri raccolta in area albanese (CD/tr. 30); l’età avanzata dell’esecutrice di Ururi (novantenne, allora), probabilmente non ha consentito la serrata azione verbale che si può rilevare nel- 18 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia la testimonianza di Fossalto: tuttavia si possono individuare agevolmente certi tratti comuni, che, evidentemente, risultano interni al genere e al fare connesso, e alcune differenze; in particolare, nell’esempio albanese, segnalo come l’azione ausiliatrice dei santi Pietro e Paolo sia invocata per trattare una sofferenza osteo-muscolare o di probabile origine reumatica (i’ tieng ‘nu d'ior a la spali), piuttosto che per fronteggiare la risipola, come rilevato nel documento sonoro fossaltese; osservo, ancora, come l’anziana esecutrice adotti un disinvolto andamento bilingue (dialetto romanzo/dialetto albanese) nella fonazione, conservando, tuttavia, una preferenza per l’albanese — cosi, almeno, mi pare — nell’intonazione di formule a contenuto magico più scoperto e diretto {Hènza vjeter e henza re / ec lart e kalo posht / ec me gukazt te perroi / bar-ku djalit i shkovi [Luna vecchia luna nuova / vai su e scendi giù / vai con le punte al torrente / il mal di pancia al bimbo è passato]). Certamente, per i ricercatori sul terreno non deve essere stato facile far emergere dalla emotività e dal vissuto individuale delle informatrici (si è visto come l’azione femminile sia prevalente nella documentazione che qui si pubblica) la disponibilità a richiamare “in viva voce” certe espressioni assai intime, o marcate da memorie dolorose, come, per esempio, nella esecuzione del pianto rituale. Perciò mi pare opportuno riportare in questa sede due fonti, efficaci, credo, per contribuire a individuare quali fossero i comportamenti e i criteri di rilevazione praticati allora: una indiretta, rispetto all’area arbèreshe molisana, e coeva alla Raccolta 23 che qui pubblichiamo, e un’altra pienamente interna al mondo molisano, ma molto più recente. La prima delle due fonti che intendo proporre concerne lo stesso Carpitella: come già accennato, tre mesi dopo l’indagine condotta a Fossalto, Ururi e Portocannone, lo studioso ebbe a misurarsi con i modi della lamentazione salentina; in particolare, il 16 agosto 1954, a Martano (LE), una località di dialetto greco, intraprese una interessante conversazione con due lamentatrici locali, intorno ai modi cerimoniali del loro agire: ne è rimasta traccia acustica nei nastri conservati presso gli AEM, a documentazione della Raccolta 24/B condotta in- 19 Maurizio Agamennone siane da Lomax e Carpitella (Brunetto 1995); da quella remota traccia propongo la trascrizione di un breve passaggio, evidenziando il dialogo tra lo studioso (C) e le informatrici (I): I: ... quaranta cinquanta anni addietro eh? ... adesso no ... adesso no ... ma prima ... C: oh ... il fazzoletto sempre così? I: Sempre cosi! Sempre così!34 C: Ma perché cosi? I: Perché cosi se da la ... la battuta C: ... la battuta I: ... la battuta e puru se dae l’aria ... perché se deve regolare se deve regolare, no? ... se no comu lavori, comu lavori cosi! C: ... ah, ho capito I: ... certe parole ca te fanne chiàncere [piangere] tutte quante ... va bene va ... C: ... io ... io quando sono stato in Abruzzo, c’erano altre due donne che facevano diverso ... l’aria ... è diverso, ma io mi sono messo nel letto con le candele, però ... ho fatto il morto ... I: Ah ... (risate) C: ... per mezz’ora ... I: Ih ... (risate) Il dialogo continua — nel nastro che ne è testimone — e lascia emergere più precisamente tempi, luoghi e itinerari del pianto negli usi locali sa-lentini, con alcune valutazioni comparative, rispetto agli usi lucani, proposte dallo studioso; la conversazione si conclude con una formula di congedo, assai incoraggiante e affettuosa, da parte di una delle due informatrici: “Mó signurìa, l’ha ‘ntisu lu lamentu ... pò scrivere tantu”35. Delineata così, l’interazione tra lo studioso e le sue interlocutrici potrebbe apparire come la generica rappresentazione di un comune fare etnografico, semplicemente orientato dall’esperienza e dalle necessità del momento. Ma non è questo che voglio commentare: come si è visto, Car- La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia piu-lla rievoca, nel breve dialogo ricordato, una precedente esperienza in Abruzzo. Tuttavia, dai cataloghi e altre fonti disponibili non risulta aleuti. i indagine condotta in Abruzzo prima dell’agosto 1954: il che rende incomprensibile, o quanto meno problematica, l’affermazione dello studioso, pur proposta in una interlocuzione estemporanea, affettuosa, vivace c spontanea; tuttavia, è bene ricordare come l’area che scende dal letamano, al confine con le Marche, fino aTermoli, al confine con la Puglia, stilla dorsale adriatica, fosse allora generalmente percepita come aggregata in una medesima continuità geografica, pur plurale (“Abruzzi e Molise”, appunto, si diceva allora). L’ambiguità nascosta nel breve dialogo riportato si risolve, forse, così: l’Abruzzo di cui Carpitella raccontava alle lamentatrici griko-salentine può essere, invece, proprio il Molise delle comunità arbereshe, il terreno che lo vide impegnato insieme con Alberto Mario Cirese; insomma, così mi pare: Carpitella dice Abruzzo ma intende - e pensa — Molise. Perciò, fu a Portocannone o a Ururi, in Molise, che Carpitella, per favorire il ricordo del lutto e il riaffiorare del pianto, si decise a distendersi sul letto, circondato dalle candele, fingendosi morto! Si trattò, evidentemente, di una energica sollecitazione al-l’avvio del rito, un suo “innesco” forzato, allo scopo di documentarne le espressioni cantate e osservarne posture e modi cinesici: pur attivato artificialmente, in seguito a una richiesta e a un’azione esterne (la “finzione" del ricercatore sul terreno), il pianto, in effetti, poteva andare avanti e auto-alimentarsi in forza di una parziale autonomia psicologica ed emotiva dei modi performativi inscritti nella cornice rituale, e conserva-t i profondamente nelle memorie del corpo36. Una conferma recente di quella lontana “finzione” operata da Carpitel-l.t in Molise, si ha in una testimonianza raccolta oggi - ed è questa la seconda fonte che intendo proporre: Rosolina Cirese, cugina di Alberto Mario, allora già sposata con Nicola Savino, stretto collaboratore dello studioso, era presente nell’occasione in cui furono registrate le espressioni del pianto rituale a Ururi; così, a sua volta, la nostra testimone ne racconta oggi, oltre cinquanta anni dopo i fatti37: 21 Maurizio Agamennone Nel lontano 1954, in occasione della festa del Legno della Croce, che cade il 3 maggio, andammo ad Ururi, io e Nicola, insieme ad Alberto Mario Ci-rese, mio cugino, e al prof. Diego Carpitella che stavano raccogliendo il materiale per i “Canti popolari del Molise”. Ci ospitò mio suocero e, in casa sua, vennero le donne del luogo per registrare i canti. La registrazione più importante fu quella delle lamentazioni funebri, che anticamente veniva fatta in occasione di decessi da donne pagate dai familiari del defunto. Essendo scomparsa l’usanza fu difficile trovare chi sapeva ancora farle. Quando finalmente si trovarono le donne, queste pretesero che qualcuno facesse il morto perché, dissero, altrimenti loro non riuscivano a piangere. Toccò al prof. Carpitella stendersi su di un tavolo e restare immobile mentre le donne piangevano ed esprimevano il loro dolore. Alla fine Carpitella scese dal tavolo evidentemente sollevato che tutto fosse finito e quando si parlò di ripetere la registrazione, che non era venuta bene, si rifiutò e disse che mai più avrebbe ripetuto una simile esperienza. Come si vede, la localizzazione si fa più sicura (l’episodio avvenne senz’altro in Molise, più precisamente a Ururi), ma alcuni dettagli risultano difformi: Carpitella cita il letto come luogo della sua momentanea “finzione”, e vi aggiunge un corredo di candele, assente nella testimonianza raccolta oggi, che, inoltre, pone l’azione sul tavolo piuttosto che sul letto. Interpellata ancora a tal proposito38, di fronte alla difformità delle due ricostruzioni, Rosolina Cirese ha replicato di non poter escludere che la memoria di Carpitella potesse essere, all’epoca (oltre cinquanta anni fa, ma ad appena tre mesi dall’evento), più “fresca”; anzi, ha precisato che quella remota descrizione potrebbe essere più verosimile, non in quanto più vicina ai fatti, ma perché risulta pienamente coerente con uno dei tratti meglio percepiti dell’evento, saldamente conservato, ancora oggi, dalla stessa Rosolina Cirese: l’esigenza, ineludibile ed espressa in maniera esplicita dalle lamentatrici interpellate, di ricostruire lo scenario del pianto; su questa condizione la nostra informatrice, oggi, non sembra mostrare alcun dubbio o perplessità. Il che, per noi, costituisce una testimonianza di grandissimo interesse e conferma quan- 22 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia to proposto prima: l’azione performativa, nel rito, è l’esito di una specifica tecnica del corpo, lungamente esperita nel tempo e saldamente memorizzata dagli esecutori e interpreti; come tale, può conservare una sua forte autonomia cinesica e motoria, parzialmente indifferente alle reali condizioni emozionali dell’occasione e, invece, fortemente sensibile agli assetti di contesto, allo scenario del rito. Ciò spiega la disinvoltura con cui le lamentatrici arbereshe riuscivano a piangere, pur in presenza di un morto finto, e in assenza di un lutto vero39. 1 l’altra parte, una comparazione delle due testimonianze citate consente una ulteriore riflessione: per gli studiosi, l’azione sul terreno produce un repertorio di esperienze - anche emozionali, non solo metodologiche e applicative - mobili e fluide, che si trasformano nel tempo e acquisiscono ulteriore senso in conseguenza delle molteplici occasioni che vengono a porsi, successivamente, nelle pratiche della rilevazione. Come si vede, la medesima esperienza (occorsa il 2 maggio 1954) che tanto disagio aveva suscitato nel ricercatore40, appena tre mesi dopo (16 agosto) alimenta una condizione emotiva di segno assai diverso: quella occasione di forte disorientamento si era rapidamente trasformata in tema narrativo di dialogo, nel rapporto amichevole con nuove informatrici, fondando una linea di continuità nel vissuto dello studioso, da cui questi poteva trarre una certa sicurezza nel confronto, e che incuriosiva, altresi, le sue interlocutrici, alimentando uno scambio “alla pari”, di reciproca curiosità. E lo stesso Carpitella, tre mesi dopo, aveva ormai assunto come una sua propria scelta intenzionale e consapevole (cosi, dal suo raccontarsi, appare la decisione di porsi sul letto per la “finzione” rituale) un’azione che, invece, originariamente (cosi è nella testimonianza di Rosolina Cirese), sembra essere stata, piuttosto, la faticosa e inevitabile replica (assunta quasi obtorto collo) a una ineludibile richesta altrui (la perentoria esigenza delle lamentatrici arbereshe di poter agire in uno scenario verosimile). Ne esce, mi pare, il profilo di una etnografia calda, si potrebbe pensare forse addirittura invasiva, comunque molto partecipante, che non si arrende e arresta davanti all’impossibilità di osservare il rito in atto, pur di documentarne alcune espressioni, e che non rifugge da una interlocuzio- 23 Maurizio Agamennone ne “affettuosa” con gli informatori sul terreno. Un agire assai incisivo, dunque, che, nella lunga esperienza di terreno accumulata da Carpitella, si affianca a un altro modo di essere attivo nella rilevazione, che pure voglio ricordare in questa sede: si tratta della scelta — anch’essa rilevata, e di segno opposto — di ridurre al minimo la propria azione, restare immobili e rendersi invisibili nello spazio osservato. Così Clara Gallini ha avuto modo di descrivere questo ulteriore e specifico “registro” dell’azione sul terreno, tratteggiando la presenza di Carpitella nella documentazione fotografica concernente i “viaggi” di Ernesto de Martino: Più spesso può comparire Carpitella, quasi come necessaria appendice del suo magnetofono. Ed era proprio così, è questa sua ‘reale’ invisibilità che rende possibile la sua visibilità nelle foto. Io che in anni più tardi ho fatto ricerca con lui, in Sardegna [...], ho ben viva nella memoria questa sua strordinaria, incredibile capacità di letteralmente sparire dalla scena, col suo corpaccio rilassato, trasformato in neutra suppellettile (Gailini 1999: 37). Del volume che - oltre cinquanta anni dopo41 — restituisce la Raccolta 23 alle comunità molisane di origine, agli studiosi, ai lettori, è parte preminente l’emozionata intervista che Vincenzo Lombardi ha raccolto conversando con Alberto Mario Cirese: lo studioso racconta lo scenario e i modi in cui fu realizzata la Raccolta, richiamando, commosso, alcune vicende della sua famigilia ed episodi della sua lunga amicizia con Carpitella. A completamento della ricognizione critica si aggiunge il lungo saggio che lo stesso Lombardi dedica ai documenti sonori albanesi qui pubblicati: si rende conto degli studi condotti sulle espressioni cantate e gli usi cerimoniali, proponendo una possibile definizione delle occasioni specifiche della ritualità nuziale, così come era praticata dagli Albanesi del Molise; si richiamano le diverse testimonianze storiche pertinenti, si segnala e ricostruisce il precoce interesse dei glottologi fin dalla seconda metà dell’Ottocento, capace, pur episodicamente, di far emergere le espressioni arbe-reshe del Molise alla consapevolezza più ampia del Paese; si rende conto altresì delle ricerche di cui queste espressioni sono state oggetto, in passa- 24 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia to e più recentemente, presso non pochi studiosi locali; si propone, infine, una valutazione analitica dei tratti musicali tipici di alcuni generi (canti di nozze, lamentazione, ninna-nanna). Il volume è altresì completato dalla ripresa, in appendice, di due testi contermini alla rilevazione condotta sul terreno: il saggio Sulla musica popolare molisana di Diego Carpitella e lo studio che Alberto Mario Ci-rese dedicò all’analisi della “Pagliara” di Fossalto, pubblicati entrambi sulla rivista “La Lapa” (l’ape, nella parlata di Fossalto), che i due Cirese (Fugenio, padre, e Alberto Mario, figlio) eroicamente condussero per oltre due anni tra la Sabina, il Molise e la Capitale42. Si tratta di testi che possono essere intesi quasi come una naturale proiezione sulla pagina scritta dei suoni conservati nella Raccolta che pubblichiamo in questa sede; i saggi che proponiamo, peraltro, costituiscono la sicura testimonianza di una attenzione che il Molise difficilmente è riuscito a suscitare, in seguito, con altrettanto rigore, cura e affetto. Quale contrappunto stretto alla ricognizione operata da Vincenzo Lombardi, e variazione più libera sopra i suoni della Raccolta 23, si possono intendere altri brevi testi che abbiamo ritenuto opportuno riproporre, sempre in appendice, concernenti le espressioni cantate e gli usi cerimoniali delle comunità albanesi presenti in Molise: uno studio del grande filologo e glottologo Graziadio Isaia Ascoli, pubblicato in edizioni distinte su due diverse riviste scientifiche, tra il 1867 e il 1877; due articoli a carattere più divulgativo, pubblicati su testate locali da Errico Me-lillo, folklorista e studioso locale (in “Pensiero del Sannio” [1881], “La nuova provincia di Molise” [1882] e anche “La crisalide” [1883]), sicuramente rappresentativi di come si andava lentamente definendo, pur in ambito regionale, e ancora nel secondo Ottocento, un orientamento culturale e un interesse critico più rispettoso verso la presenza e le opere di popolazioni così vicine, pure, non raramente, ignorate ed emarginate. A conclusione di questa appendice si propone un saggio di Nicola Savino43, anch’esso tratto da “La Lapa” (1955): come si intende, questa “mitica” rivista si configura sempre più come un’esperienza cultura- 25 Maurizio Agamennone ne “affettuosa” con gli informatori sul terreno. Un agire assai incisivo, dunque, che, nella lunga esperienza di terreno accumulata da Carpitella, si affianca a un altro modo di essere attivo nella rilevazione, che pure voglio ricordare in questa sede: si tratta della scelta - aneli essa rilevata, e di segno opposto — di ridurre al minimo la propria azione, restare immobili e rendersi invisibili nello spazio osservato. Cosi Clara Gailini ha avuto modo di descrivere questo ulteriore e specifico “registro” dell’azione sul terreno, tratteggiando la presenza di Carpitella nella documentazione fotografica concernente i “viaggi” di Ernesto de Martino: Più spesso può comparire Carpitella, quasi come necessaria appendice del suo magnetofono. Ed era proprio così, è questa sua ‘reale’ invisibilità che rende possibile la sua visibilità nelle foto. Io che in anni più tardi ho fatto ricerca con lui, in Sardegna [...], ho ben viva nella memoria questa sua strordinaria, incredibile capacità di letteralmente sparire dalla scena, col suo corpaccio rilassato, trasformato in neutra suppellettile (Galiini 1999: 37). Del volume che - oltre cinquanta anni dopo41 - restituisce la Raccolta 23 alle comunità molisane di origine, agli studiosi, ai lettori, è parte preminente l’emozionata intervista che Vincenzo Lombardi ha raccolto conversando con Alberto Mario Cirese: lo studioso racconta lo scenario e i modi in cui fu realizzata la Raccolta, richiamando, commosso, alcune vicende della sua famigilia ed episodi della sua lunga amicizia con Carpitella. A completamento della ricognizione critica si aggiunge il lungo saggio che lo stesso Lombardi dedica ai documenti sonori albanesi qui pubblicati: si rende conto degli studi condotti sulle espressioni cantate e gli usi cerimoniali, proponendo una possibile definizione delle occasioni specifiche della ritualità nuziale, così come era praticata dagli Albanesi del Molise; si richiamano le diverse testimonianze storiche pertinenti, si segnala e ricostruisce il precoce interesse dei glottologi fin dalla seconda metà dell’Ottocento, capace, pur episodicamente, di far emergere le espressioni arbe-reshe del Molise alla consapevolezza più ampia del Paese; si rende conto altresì delle ricerche di cui queste espressioni sono state oggetto, in passa- 24 24 La Raccolta 23 degli Archivi di Etnomusicologia 10 e più recentemente, presso non pochi studiosi locali; si propone, infine, una valutazione analitica dei tratti musicali tipici di alcuni generi (canti di nozze, lamentazione, ninna-nanna). 11 volume è altresì completato dalla ripresa, in appendice, di due testi contermini alla rilevazione condotta sul terreno: il saggio Sulla musica popolare molisana di Diego Carpitella e lo studio che Alberto Mario Ci-rese dedicò all’analisi della “Pagliara” di Fossalto, pubblicati entrambi sulla rivista “La Lapa” (l’ape, nella parlata di Fossalto), che i due Cirese (F.ugenio, padre, e Alberto Mario, figlio) eroicamente condussero per oltre due anni tra la Sabina, il Molise e la Capitale42. Si tratta di testi che possono essere intesi quasi come una naturale proiezione sulla pagina scritta dei suoni conservati nella Raccolta che pubblichiamo in questa sede; i saggi che proponiamo, peraltro, costituiscono la sicura testimonianza di una attenzione che il Molise difficilmente è riuscito a suscitare, in seguito, con altrettanto rigore, cura e affetto. Quale contrappunto stretto alla ricognizione operata da Vincenzo Lombardi, e variazione più libera sopra i suoni della Raccolta 23, si possono intendere altri brevi testi che abbiamo ritenuto opportuno riproporre, sempre in appendice, concernenti le espressioni cantate e gli usi cerimoniali delle comunità albanesi presenti in Molise: uno studio del granile filologo e glottologo Graziadio Isaia Ascoli, pubblicato in edizioni distinte su due diverse riviste scientifiche, tra il 1867 e il 1877; due articoli a carattere più divulgativo, pubblicati su testate locali da Errico Me-Ii 1 lo, folklorista e studioso locale (in “Pensiero del Sannio” [1881], “La nuova provincia di Molise” [1882] e anche “La crisalide” [1883]), sicuramente rappresentativi di come si andava lentamente definendo, pur in ambito regionale, e ancora nel secondo Ottocento, un orientamento culturale e un interesse critico più rispettoso verso la presenza e le opere di popolazioni così vicine, pure, non raramente, ignorate ed emarginate. A conclusione di questa appendice si propone un saggio di Nicola Savino43, anch’esso tratto da “La Lapa” (1955): come si intende, questa “mitica” rivista si configura sempre più come un’esperienza cultura- 25 Maurizio Agamennone le e critica cui è irrinunciabile guardare, per costruire una storia possibile della regione. Infine, se è abbastanza conosciuta l’opera di Carpitella come pioniere e maestro della documentazione visuale in antropologia, forse è meno noto che anche Alberto Mario Cirese è stato un appassionato e abile fotografo. Perciò, a chiusura della documentazione concernente la rilevazione del 1954, pubblichiamo alcune fotografie che lo stesso Cirese scattò a Fos-salto e Ururi in quei primi giorni di un ormai lontanissimo, “ridente”, maggio. A queste si aggiungono altre immagini provenienti da archivi familiari conservati presso le comunità arbereshe di Ururi e Portocannone. 26 Note 1 Nel settembre del 1948, con il supporto tecnico della RAI, il musicologo Giorgio Nataletti aveva promosso la costituzione del Centro Nazionale Studi di Musica Popolare (CNSMP), presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in Roma; si trattava del primo vero archivio sonoro italiano, successivamente (1989) trasformato negli Archivi di F.tnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, di cui Diego Carpitella è stato il primo Conservatore. Per una ricostruzione delle attività degli Archivi, cff. Ferretti 1993: 13-30. 2 Dal catalogo e dalle schede analitiche allegate ai nastri originali su cui fu incisa finterà Raccolta risultano, senza possibilità di equivoco, le date proposte (1 e 2 maggio 1954); cfr. Folk. Documenti sonori, 1977: 309-311. 3 Rispetto al cursus honorum di Carpitella, Alberto Mario Cirese sali in cattedra abbastanza presto, nel 1961, come Ordinario di Storia delle tradizioni popolari presso l’Università di Cagliari; da qui è passato successivamente a Siena e quindi a Roma “La Sapienza”, di cui è oggi Professore Emerito. Carpitella, invece, dopo alterne vicende didattiche presso l’Accademia Nazionale di Danza e il Conservatorio di musica “Santa Cecilia” in Roma, e incarichi molteplici presso Università diverse (Trento, Chieti, Roma), divenne Ordinario di Etnomusicologia molto più tardi, ancorché primo nell’ordinamento universitario italiano, nel 1976 presso “La Sapienza” di Roma. Le operazioni concorsuali che lo portarono in cattedra sono raccontate dallo stesso Cirese in una intervista raccolta da Eugenio Testa in ricordo di Giovanni Battista Bronzini, anch’egli partecipante allo stesso concorso (Cirese 2003). Fino alla metà degli anni Cinquanta, quando si colloca la Raccolta 23, Cirese insegnava nella scuola secondaria e, congiuntamente, svolgeva un’intensa attività di amministratore presso il Comune e la Provincia di Rieti. Le complesse e lunghe vicende, nonché le laboriose alleanze e solidarietà accademiche, che conti ussero alla istituzione della cattedra di Etnomusicologia presso l’Università “La Sapienza” di Roma sono ricostruite in Ziino 2003. Per una valutazione delle ricerche e del magistero di Carpitella cfr. Agamennone, Di Mitri (a cura di) 2003. 4 La Raccolta 18/AEM è stata pubblicata in CD con il titolo Musiche di tradizione orale. Basilicata, a cura di Giorgio Adamo e Carlo Marinelli, Discoteca di Stato, Istituto di ricerca per il teatro musicale, Melodram, CD 991/2, 1993. 5 Anche la Raccolta 22/AEM è oggetto di un volume, di pubblicazione recentissima: cfr. Ricci e Tucci (a cura di) 2005. 6 La Raccolta 16/AEM (1951) comprende preziose musiche eseguite con “le ciaramelle” (un tipo locale, altrove non rilevato, di zampogna a due canne, senza bordone), una lamentazione funebre raccolta a Preta di Amatrice, il Pianto di Mascioni e di Ama-trice, la Moresca di Contigliano e alcune meravigliose polifonie vocali femminili; la Raccolta 21/AEM (1953) conserva canzoni narrative, una lamentazione funebre raccolta a Colle di Torà e alcune polifonie della mietitura; per uno studio sulla lamentazione funebre locale, cfr. Cirese 1953 e Palombini 1989. 27 Maurizio Agamennone 7 Alberto Cirese compose e pronunciò personalmente l’elogio funebre, il 9 agosto 1990, sulla scalinata della Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma, nel corso dei funerali di Carpitella. Dal lungo testo, conservato dallo stesso Cirese, traggo un breve passo che mi pare non solo assai emozionante, ma, altresì, rappresentativo del rapporto di prossimità/contiguità che ha segnato la vita dei due studiosi: “Così come era sommesso ed intenso il tuo ricordare, anche dopo lunghi silenzi. Ed era il ritrovarsi fraterno, come se il tempo non fosse passato. Un viaggio nel cuore della Sabina, tren-t’anni fa. La neve ci chiuse. Restammo sospesi: non più responsabili, in un limpido cristallo di luce irreale. Quante volte m’hai detto che dovevamo rifare quel viaggio? ‘Vien-ce dumane, vience a cunsulare’, dice un pianto funebre che anche a te piacque: vience dumane Diego, vience a cunsulare, che quel ritorno lo dobbiamo ancora fare”. 8 La registrazione della “Pagliara” di Fossalto è nel disco microsolco Northern and Central Italy and the Albanians of Calabria, Columbia KL 5173, “The Columbia World Library of Folk and primitive Music”, 1957, voi. XV: brano 28. Lomax e Carpitella, nel loro lungo viaggio di ricerca, non toccarono affatto il Molise, fra le poche regioni italiane a essere escluse (Basilicata, Sardegna e, appunto, Molise): ciò, probabilmente, perché l’area molisana era già stata oggetto di indagine per la Raccolta 23, realizzata due mesi prima che iniziasse l’esplorazione Lomax-Carpitella. Tuttavia, i due dischi long playing pubblicati per “The Columbia World Library of Folk and primitive Music” (voli. XV e XVI) hanno un carattere antologico e accolgono anche registrazioni realizzate da altri ricercatori. Alan Lomax fu del tutto estraneo alla registrazione originale: probabilmente, perciò, la foto che ritrae i protagonisti della “Pagliara” di Fossalto deve essere apparsa a entrambi (Carpitella e Lomax) particolarmente “intensa”, e sufficientemente rappresentativa in sé, come efficace visualizzazione di un fare rituale fortemente emozionante. 9 A tal proposito cfr. Tucci e Messori 1985: 134-137. 10 Una trascrizione della musica della “Pagliara” di Fossalto è in Carpitella 1961 e Leydi 1973; per una valutazione critica di queste trascrizioni musicali cfr. Agamennone 1989. 11 Per quanto concerne la documentazione molisana cfr. Cirese 1957: 99-117. 12 Sui tratti stilistici delle ninne nanne cfr. Biagiola 1981 e 1989. 13 Sottolineo questa condizione ritmica che, mi pare, costituisca uno dei non molto numerosi esempi di ritmo akzak (così i musicologi definiscono i ritmi dispari o asimmetrici, da una espressione turca che indica originariamente una deambulazione zoppicante) nella musica tradizionale della penisola italiana. 14 La categoria “canti di lavoro” può apparire problematica e piuttosto generica, lo riconosco: in questa sede si indicano così le espressioni cantate che si ritiene siano connesse ad attività di lavoro (prevalentemente in aree rurali); in particolare, per l’attribuzione alla tassonomia relativa, tra gli indicatori privilegiati si pongono: la descrizione che ne fanno gli stessi esecutori (dedotta dalle schede di terreno, conservate in archivio), i modi di esecuzione, la presenza di versi con riferimenti espliciti ad azioni e ambienti produtti- 28 Note vi; non risultano, nei documenti fossaltesi, espressioni cantate ad azione euritmica (nelle quali il ritmo del canto coincide con il gesto e l’azione produttiva: una condizione, peraltro, piuttosto infrequente e propria di categorie e azioni produttive molto specifiche e localizzate). Le stesse espressioni possono essere anche definite come “canti durante il lavoro”: questa categoria, più estesamente, può rappresentare sia le espressioni cantate durante effettive operazioni produttive, sia durante le pause relative, con modi esecutivi simili, agevolmente transitabili dall’una (lavoro) all’altra (pausa) situazione. 15 Per una ulteriore riflessione e documentazione concernente queste procedure di canto di gruppo in ambiente rurale, durante il lavoro, cfr. L’esperienza del gruppo e r'epopea” del canto contadino, in Agamennone 2005 (a cura di): 58 e sgg. 16 Si immagini, all’ascolto, che l’esecuzione a due sole voci alterne documentata in questa Raccolta, sia integrata da una partecipazione assai più numerosa, pari a tutte le persone presenti in un fondo rurale per attività di lavoro all’aperto. A proposito di questa partecipazione “di massa” al canto di gruppo in grandi spazi, si veda la testimonianza di Cirese, nell’intervista riportata in questa sede: “L’onda sonora dei cori fossaltesi, e anche negli altri paesi intorno, mi ritorna ancora nettissima. Era un bel cantare ...”. Per una riflessione su questo fare musicale in rapporto con lo spazio, più o meno consciamente sentito e verbalizzato, relativamente a una regione contermine, cfr. Di Virgilio 2000. 17 Si ascolti la combinazione delle voci in cadenza, con un’intonazione di terza “neutra”; un’occorrenza simile si rileva anche in altre espressioni polifoniche di questa Raccolta (br. 14, 17, 19) 18 In generale, sui repertori cantati albanesi in area molisana, cfr. Cirese 1957: 121-189. 19 Ringrazio Nicola Scaldaferri, per questa segnalazione. 20 Modi simili, peraltro, si rilevano anche in aree ben lontane: diffusamente, ad esempio, nel Maghreb, con partecipazione sociale larghissima, pur se con prevalenza femminile. 21 Cfr. Carpitella 1955: 22; in effetti, è difficile non tenere nel dovuto conto questa valutazione: tra gli informatori di Portocannone, Aurora Crltani, presente in più documenti sonori (è sua la voce di una lunga sequenza di scongiuri [CD/tr. 30] e nell'intervista condotta da Carpitella [CD/tr. 31], nonché di una breve lamentazione [CD/tr. 32]), aveva, all’epoca della Raccolta, 90 anni. 22 Come ho già segnalato, questa Raccolta è ora oggetto di un volume specifico: cfr. Ric-( i, Pucci 2005. Sulla musica degli arbéreshé della Calabria cfr., pure, De Gaudio 1993. 23 Così Carpitella: “A questo proposito, molti sono d’accordo, e a ragione, che la conservazione del patrimonio tradizionale delle comunità albanesi della Calabria sia dovuta in parte alla presenza continua e in un certo senso efficiente del clero di rito orientale. Questa può essere una ragione; in ogni caso ne andrebbero esaminate delle altre” (1955: 22; ora anche in appendice al presente volume). 24 Cfr. Carpitella 1955: 22. 25 Su questi documenti cfr. la riflessione proposta da Vincenzo Lombardi, in questa sede. 26 Altre testimonianze di oscillazione bilingue, nella documentazione molisana conservata nella Raccolta 23, si hanno nel “canto per la corsa dei carri” (CD/tr. 38), nelle 29 Maurizio Agamennone interviste (CD/tr. 31, 45-46), probabilmente in conseguenza della interazione con l’intervistatore (Carpitella), e nella sequenza di scongiuri (CD/tr. 30). 27 II lamento di Ururi è stato analizzato da Sandro Biagiola, che ne ha realizzato una trascrizione musicale della seconda sequenza versica (1996: 22). 28 Su questa “aria di famiglia” che informa le strutture musicali delle espressioni femminili concernenti la ritualità della casa e della famiglia, e che sembra estendersi fino a connotare le stesse ninne nanne, cfr. le valutazioni proposte da Vincenzo Lombardi in questa sede. 29 Per ulteriori considerazioni intorno a questa singolare prossimità/contiguità tra le espressioni cantate delle nozze e del pianto cfr. ancora il saggio di Vincenzo Lombardi. 30 L’incipit della melodia (bellissima: si ascolti soprattutto la seconda e terza strofa, in cui l’esecuzione è più sicura e sentita) è costruito sulla successione di salti ascendenti di quinta e sesta minore, una sequenza piuttosto infrequente, non solo nella tradizione albanese, ma anche nella documentazione romanza. 31 Corse di carri trainati da coppie di buoi, con percorsi non raramente in salita, si tengono in diverse località, non solo albanesi (celebre è la corsa di San Martino in Pen-silis, un paese di pertinenza romanza); assai interessante, inoltre, è la festa di san Pardo a Larino, con una lunga teoria di carri trainati da buoi e addobbati a festa, che percorre le vie del paese durante tre giorni consecutivi (cfr. Due Duciate 1984). 32 Nella Raccolta 23 si conserva testimonianza della celebrazione di una vittoria conseguita dalla fazione dei cosiddetti “Giovanotti”, contrapposta alla fazione — soccombente, nell’occasione rievocata - dei cosiddetti “Giovani” (CD/tr. 38). 33 Per la versione lucana cfr. Scaldaferri 1994; per la versione calabrese cfr. Ferrari (a cura di) 1959; per la documentazione balcanica - dove il testo, soprattutto in area geg, b conosciuto come “Ymer Aga” — cfr. Skendi 1954. Sull’epica albanese, nel contesto dell’epica balcanica, cfr., pure, Scaldaferri 2003. Sulla collocazione all’interno del rituale di nozze arbèresh di questo testo, altrimenti appartenente al repertorio epico, cfr. le osservazioni proposte da Vincenzo Lombardi. 34 Lo studioso e le sue informatrici si riferiscono a un’azione propria del pianto rituale: si tratta della oscillazione di un fazzoletto, tenuto tra le braccia distese, esercitata su un asse orizzontale da sinistra a destra e viceversa, e ritmicamente governata da una misura binaria. 35 Nel nastro, Carpitella cita anche Lomax, che definisce “il professore”, di cui, nell’occasione, segnala l’assenza, a causa di una momentanea indisposizione. Nella catalogazione operata dagli AEM questo dialogo è indicato come “intervista sul lamento funebre con esempi” (Race. 24/B: br. 13); Walter Brunetto ha proceduto a una attenta ricognizione e rinumerazione dei documenti sonori conservati in tutta l’enorme raccolta condotta da Lomax e Carpitella, individuando e censendo anche brani di parlato e dialogo altrimenti non indicati (Brunetto 1995). 36 Così accadeva pure per l’individuazione e registrazione di ninne nanne e altre espressioni destinate all’infanzia; cullare un cuscino, in assenza e in sostituzione di 30 Note bambini “veri”, richiamava gesti e comportamenti inscritti profondamente nelle memorie del corpo di mamme, nonne, zie: moduli espressivi che, una volta mobilitati, diffìcilmente si arrestavano o adulteravano, pur in presenza di ricercatori esterni o con l'intervento dei mezzi di registrazione. 37 La testimonianza è stata raccolta a Campobasso nel settembre 2005, da Vincenzo l ombardi - dietro sua sollecitazione diretta - che ne conserva altresì una memoria scritta pervenutagli; da quella memoria, trascrivo in questa sede. 38 Questa ulteriore verifica, su mia sollecitazione, è stata realizzata ancora da Vincenzo Lombardi, nel corso di una conversazione telefonica (29 settembre 2005). 39 I .’incomprensione di questa forza intrinseca dell’azione performativa nel rito spiega altresì le diffidenze e le polemiche contro queste e altre pratiche devozionali e religiose, condotte in ambiente cristiano, fin dalle origini. 40 C ionie s’è visto, Rosolina Cirese, la nostra testimone, descrive senza incertezze il malessere di Carpitella al termine della “finzione”, un disagio tale da indurlo a rifiutarsi di ripeterne la registrazione apparentemente non soddisfacente, una scelta che deve essere stata assai impegnativa se si considera il “perfezionismo” quasi maniacale che allora marcava la sua azione di rilevatore. Nei nastri conservati presso gli AEM non sono rari, in testa o in coda ai singoli brani, gli inserti di parlato in cui Carpitella istruisce gli informatori (cantori e strumentisti) sui modi più opportuni di agire nel corso della registrazione, oppure, redarguisce gli stessi qualora la loro azione fosse poco attenta o non si uniformasse alle strette necessità di ripresa: benché sostenuti generosamente dalla RAI, i ricercatori sul terreno erano costretti ad agire in tempi piuttosto ridotti e si trovavano frequentemente nella condizione di dover ottimizzare l’intervento, economizzando il più possibile nel consumo dei nastri, dell’energia delle batterie ecc. Tuttavia, considerato che molte delle espressioni musicali documentate erano ancora vive e che gli esecutori conservavano ottime capacità performative, nel succedersi delle fasi di registrazione non raramente risultava “buona la prima”, con la conseguenza di ridurre al minimo le ripetizioni. 41 Una precedente edizione, con profilo editoriale profondamente diverso, si è avuta in Agamennone e Lombardi (a cura di), 2002. 42 “«La Lapa», periodico di «storia e letteratura popolare» vissuto tra il settembre del 1953 e il dicembre del 1955, fu legata a Rieti dal lavoro congiunto di due generazioni, quella di Eugenio Cirese, uomo di scuola e poeta dialettale, e quella di Alberto Mario Cirese suo figlio, insegnante anch’egli e poi studioso universitario di Tradizioni Popolari e di Antropologia, ma aveva alle spalle anche un rapporto profondo con il Molise, patria natale del primo dei due promotori e patria «culturale» per ambedue. Non a caso al Molise sarà dedicato il numero 1/2 del 1955, insieme documento sulla cultura popolare di una regione e ricordo del poeta scomparso, che aveva fondato la rivista. «La Lapa» è stata dunque nella sua genesi una rivista doppiamente «di provincia». Nata e vissuta in una casa di Rieti, con dietro il ricordo del Molise, trasferitasi solo nell’ultimo anno nella Capitale, la rivista fu «provinciale» in un senso di cui sempre più 31 Maurizio Agamennone apprezziamo il valore, giacché fu da subito capace di intersecare tradizioni di studio e temi regionali e locali con i fermenti della cultura italiana ed europea, e seppe costruire nel piccolo delle sue pagine, una immagine nuova della poesia dialettale, come forma potente di umanesimo della vita quotidiana, e una immagine nuova dello studio delle tradizioni popolari, in dialogo con altre discipline dell’uomo e parte di un ampio disegno intellettuale legato alla ricerca scientifica e insieme organizzazione della cultura, all’impegno sociale ed umano” (Clemente 1991: 9). 43 Nicola Savino, insegnante e preside arbéresh (è sua la voce presente nell’intervista [tr, 31], in cui funge da interprete a Diego Carpitella), come s’è visto, era legato ad Alberto Mario Cirese da vincoli di parentela (ne aveva sposato la cugina Rosolina Cirese, an-ch’essa già ricordata in questa sede, per la sua preziosa testimonianza sulla rilevazione del pianto a Ururi); è stato altresì informatore prezioso e attivo consulente dello studioso, nel corso della sua indagine sulle comunità arbèreshe molisane, durante gli anni 1954-57. 32 Vincenzo Lombardi Gli studi sulle espressioni arbéreshe del Molise: una lunga e frammentaria continuità Il recente risveglio di interesse per il patrimonio culturale delle minoranze linguistiche italiane ha condotto verso un potenziamento delle iniziative di ricerca concernenti le “isole” alloglotte locali. In Molise questo processo riguarda le comunità arbereshe e croate: l’attenzione per il loro patrimonio culturale e gli studi relativi non sono stati particolarmente intensi e frequenti, in passato. Negli ultimi anni, l’attivazione di progetti dedicati alla valorizzazione dei tratti identitari di tali comunità, anche attraverso l’apertura di contatti diretti con i territori di provenienza d’oltre Adriatico, la creazione di specifici percorsi formativi di livello universitario, una complessiva maggiore sensibilità verso il recupero, la conservazione e catalogazione del patrimonio documentario e di quello demo-et-no-antropologico di interesse regionale, hanno prodotto alcune iniziative di ricerca finalizzate allo studio dei giacimenti culturali tramandati dalle comunità arbereshe e croate del Molise. Tuttavia, le espressioni di interesse etnomusicale, nonostante alcuni lavori già pubblicati (Agamennone e Lombardi 2002, Lombardi 2002 e 2002a), attendono ancora uno studio di maggiore penetrazione e portata. Se le “difficoltà materiali delle comunicazioni” e la “discriminazione culturale dei ceti egemonici nei confronti dei gruppi subalterni”, unite alle “resistenze dei ceti periferici e subalterni alle imposizioni civilizzatrici dei ceti egemonici”, sono alla base delle motivazioni che Alberto Mario Cirese individua per spiegare la formazione dei “dislivelli interni di cultura” (Cirese 1973: 21-24), ciò è doppiamente vero nel caso delle comunità arbereshe, 33 Vincenzo Lombardi oggetto di questo lavoro: agli aspetti problematici già indicati dall’antropologo molisano, è inevitabile sommare lo storico isolamento territoriale del Molise e le relazioni non sempre facili con le comunità romanze1. Per quanto concerne le espressioni cantate, e più in generale, la tradizione etnomusicale, le testimonianze più importanti si collocano sempre a seguito di visite dirette alle comunità alloglotte molisane. Fra le più significative, si possono indicare quelle di Graziadio Isaia Ascoli nel 1864, Errico Melillo fra il 1880 ed il 1881, Michele Marchiano nel 1902, Athos Foco Mainardi nel 19IO2, Maximilian Lambertz fra il 1913 ed il 19l4e infine, nel 1954, la rilevazione di Diego Carpitella e Alberto Mario Cirese. Quest’ultima ricognizione, da un lato consolida l’esplorazione etnomusicale del primo studioso, già rivolta alle comunità arbéreshe di Calabria e Basilicata, dall’altro conclude un ampio progetto di ricerca, dedicato a tutte le comunità molisane, già avviato da Eugenio Cirese (Cirese E. 1953), padre di Alberto Mario, con il supporto di numerosi collaboratori; dopo qualche anno, questo lavoro troverà il suo compimento editoriale nel secondo volume de I Canti popolari del Molise1. L’attenzione rivolta ai comuni arbereshe ha l’obiettivo programmatico di rendere noto il “patrimonio dei canti popolari che queste comunità ancora conservano e tramandano, sia perché poco se ne è raccolto, sia perché quel che sin qui è stato pubblicato dall’Ascoli, dal Marchiano e dal Lambertz o è ignorato o è difficilmente accessibile” (Cirese 1957: 121). Oggi, questa constatazione di Alberto Mario Cirese, nonostante il suo rilevante impegno di ricognizione e studio, appare, ancora, largamente pertinente. Altrettanto viva resta una sua raccomandazione di metodo che sottolinea l’impossibilità di “avventurarsi in ricerche senza dubbio complesse senza la collaborazione stretta del-l’albanologo e del musicologo” (Cirese 1957: 121). Fra le prime testimonianze dirette sull’esistenza delle comunità arbéreshe molisane si può segnalare quella dell’abate Serafino Razzi che attraversa la fascia costiera del territorio molisano, all’epoca appartenente alla Capitanata4, diretto verso il Gargano. Nel resoconto del suo Viaggio a Santo Angelo nel Monte Gargano svolto nel 1576 scrive di aver visita- 34 Gli studi sulle espressioni arbéreshe del Molise in il “casale murato di Campo marino” abitato da greet. La definizione ili l'irci, come spiegherà successivamente Giovanni AndreaTria vescovo ili I .nino nelle sue memorie del 1744 (Tria 1989: 412), è legata al rito more grecorum et iuxta ritum Orìentalis Ecclesiaé, che sarà ulteriore cau-i di discriminazione, sia da parte delle comunità romanze, sia da parte ilei i(invertiti al rito latino appartenenti alle stesse comunità arbéreshe7. I >.illu cospicua mole di documenti archivistici o bibliografici individuali c i itati da molti studiosi emergono labili tracce, benché non rare, per una ricostruzione della cultura tradizionale (Di Lena 1996: 630-654). I Ina, di particolare rilievo, anche dal punto di vista etnomusicale, già segnalala da Alberto Mario Cirese (1955: 19 e 111), è la testimonianza tornila nel 1744 dal citato vescovo Tria su alcuni aspetti degli usi fune-Iil i osservati dagli abitanti di Portocannone8. Tuttavia, bisognerà aspet-i.irc oltre un secolo affinché la temperie culturale generale facesse mannare una diversa attenzione per le espressioni culturali tradizionali, in pai ticolar modo verso le problematiche delle lingue e culture minorita-lie e, pertanto, permettesse la produzione di studi dai quali è possibile, oggi, estrapolare dati e indurre congetture di interesse etnomusicale9. 1. I primi interessi I i a la metà del XIX secolo e gli anni immediatamente precedenti la Grande C iuerra le comunità arbéreshe molisane sono meta di visite da parte di non pochi studiosi, che hanno lasciato una documentazione piuttosto consistente e interessante. Con almeno due decenni di anticipo rispetto agli interessi dell’etnomusicologia, sulla spinta del clima e della cultura positivista dell’Ottocento la linguistica avvia una ricognizione di tipo comparativo. Il fervore documentario e classificatorio evidenzia una grande quantità di testimonianze, confortate dalla rilevazione sul terreno. Rispetto alla più ristretta realtà molisana ne restano, degne di nota, almeno due. La prima è quella di Giovenale Vegezzi Ruscalla che - nel suo lavoro sulle comunità slavo-molisane, pubblicato nel 1864 — accenna agli inset! iamenti albanesi di Epiroti o Schipetari, sottolineando come, fino a 35 Vincenzo Lombardi quel momento, nessuno, tranne Giovanni De Rubertis (1856) per le comunità croate, ne avesse fatto menzione, neppure il “chiarissimo professore Ascoli”. Risalgono allo stesso anno due notizie pubblicate sulla “Rivista italiana ch’esce a Torino”, di Domenico Comparetti e di Graziadio Isaia Ascoli10 che, proprio nell’ottobre del 1864, compie la sua visita presso le comunità molisane (Vegezzi-Ruscalla 1864: 6 e sgg). Gli studi linguistici dell’epoca rivelano uno stretto rapporto con quelli di interesse folklorico: i linguisti si occupano attivamente di canti, fiabe e tradizioni locali. Cosi accade per Graziadio Isaia Ascoli: il linguista goriziano porta alla più compiuta applicazione la concezione del sostrato etnico, formulata da Costantino Nigra, che attribuisce maggiore importanza alla “storia del testo e delle sue variazioni attraverso il tempo” piuttosto che “al tema o all’argomento trattato”11. Graziadio Isaia Ascoli, nella sua visita in Molise, raccoglie materiali sia presso le comunità croate sia presso quelle arbereshe. Nel marzo 1867 pubblica un articolo dal titolo Saggi ed appunti sulla rivista “Il Politecnico” di Milano12: dopo aver analizzato il Saggio di grammatologia comparata sulla lingua albanese (1864) di Demetrio Camarda13, evidenzia che nell’opera “non vi sono rappresentate le colonie albanesi delle province orientali del napoletano”, due delle quali, scrive, “Montecilfone (2727 ab.) e Portocannone (2159), nel Molise, io ho potuto toccare in una mia rapida scorsa dell’ottobre 1864” (Ascoli 1877: 70). Benché rapida, la visita fu molto accurata e attenta, tanto che Ascoli annota: “conservo sempre, con piena fedeltà, quella lezione e quella pronuncia, che ho ripetutamente sentito”. Con sensibilità e competenza, lo studioso fotografa la condizione di decadenza del canto tradizionale e, pur lasciando qualche speranza, scrive: “La canzone popolare viene morendo fra questi coloni; ma dei resti, non ispregevoli, se ne potrebbero ancora salvare”14. Il riferimento riguarda soprattutto i testi verbali, ma risulta significativo anche per la relativa intonazione musicale; non è così, a suo giudizio, per ciò che concerne i dispositivi cerimoniali connessi: in un passo successivo, infatti, osserva che “se [sono] impalliditi i canti, non troveremmo però alterata, nel Molise, la fierezza, o anche la ferocia del costume albanese” (Ascoli 1877: 75). 36 Gli studi sulle espressioni arbèreshe del Molise ( 'on l’aiuto deH’arciprete Antonio Martini, lo studioso raccoglie tre testi a Montecilfone: un canto di corteggiamento, un frammento analogo, un canto per far rivo della sposa compreso nel cerimoniale di nozze; inoltre annota l’uso funebre di porre un anello o una moneta in bocca al defunto (la denàke degli antichi Elleni). A Portocannone, con l’aiuto di Achille Campofreda, ricava una lezione “compiuta ma assai povera” di Costantino il piccolo, cantata da Gaetano Acciajo. Il primo canto trascritto da Ascoli (qui riportato con le varianti della versione del 1877) ci consegna le parole che “dice alla bella l’innamorato di Montecilfone”15: Morì mess hhóghza fìgi pe morì buz kukicza girsi ci je a buk’ra lùmja ti je ndòr kjegk e bon dit p’r d’è O tu dalla vita sottilina, come fili di refe, o tu dalle labbra rossine, come ciliege; come sei bella, beata te; tu se’ in cielo e fai luce in terra 11 testo, cosi come raccolto da Ascoli, appare di particolare interesse; né in tale forma, né come variante, risulta rilevato successivamente, potendosene rintracciare solo una presenza frammentaria. Il terzo verso, benché variamente trascritto, sembra aver conservato una maggiore persistenza: compare come primo verso in un canto di Ururi ( Qéje e bukra, e lumia ti, raccolto nel 1954; cfr. Cirese 1957: 134-135, trascrizione num. 551) e in un testo ancora vivo nel 2001 (Qè je e bukura, e lumeza ti-, cfr. Fiorilli, 2001: 56). Michele Marchianò16 riporta una variante dei primi due versi, raccolta a Campomarino17 e Portocannone18; una versione più estesa del secondo verso è all’interno di un testo cantato a Portocannone: ata buza e kuqe / e kuqe si gjershi (Cirese 1957: 136-137, num. 554). La versione trascritta da Ascoli potrebbe essere intesa come la combinazione di due canti diversi aggregati occasionalmente dall’informatore, oppure, come un testo successivamente decaduto e conservato solo frammentariamente. La prima ipotesi sembrerebbe più probabile: a distanza di molti decenni, tracce del testo trascritto nel 1864 persistono in documenti 37 Vincenzo Lombardi raccolti in altre due località, Ururi e Portocannone, diverse rispetto a Montecilfone, il luogo originario; del testo proposto da Ascoli non sembra rilevabile oggi alcuna traccia musicale. Uno dei versi trascritti da Ascoli — raccolto anche a Portocannone (Cirese 1957: 136-139) — è compreso in un canto di fidanzamento documentato in questa sede (CD/tr. 37). Ne è interprete Rachele Di Vincenzo, che sembra non conservare memoria della melodia; ne fornisce una versione recitata ritmicamente, forse sostitutiva dell’intonazione cantata: può essere utile rilevare ciò che di questa rimane, nelle fonìe dei versi e nella struttura ritmico-metrica19. All’ascolto, l’intonazione recitata rivela una articolazione in quattro versi di dodici sillabe, con alternanza di gruppi di 5+7, 6+6 (contrazione delle 7+7 sillabe nel verso 2), 7+5, 6+6 sillabe; la conclusione della sequenza versica è nell’accelerazione dei quattro versi finali (5/5/5/7 sillabe), in una successione di quattro coppie di rime baciate20: 1 Shì fé kapile 1 ke te varenj me mdllez 5+7 (a)a 2 màllez e trendafìle, / trèndafile v e gjdllez 6+6 (a) a 3 e bàrdh e bardh si kdrta, / ìljaz ató si 7+5 b 4 ajò buz e kùqe / e kùqe si gjirshi. 6+6 b 5 Pjèti A i dervitur 5 c 6 lèsht fare nxijtur 5 c 7 hàp ato dora 5 d 8 i lumi ù fé t'móra11. 7 d 2. Una possibile danza nuziale. Ascoli, Marchiano, Lambertz Graziadio Isaia Ascoli raccoglie altri testi a Montecilfone da “due popolani” che li “raccozzavano in modo bizzarro”. Tip’nzonn kefle [Tu pensi che io dormo] è considerato a Montecilfone un canto d’amore: se ne è conservata memoria, con alcune varianti, fino a tutti gli anni Sessanta del Novecento22. L’ultimo testo trascritto è Vage vdge kurkussdge-, così 38 Gli studi sulle espressioni arbéreshe del Molise nc scrive lo studioso: “Bella, bella vezzosa è la traduzione che i Monte-cillonesi mi dettarono, e io sono ben lungi dallo stimarmene sicuro” (Ascoli 1877: 72-73); aggiunge ancora, senza ulteriori spiegazioni, che a Montecilfone lo “cantano all’arrivo della sposa”. In effetti, il testo risulta legato al complesso cerimoniale di nozze praticato - fino a non molti decenni orsono - presso le comunità arbéreshe molisane, ma il senso dell’annotazione non pare univoco. Più precisamente, infatti, alcuni autori collocano il canto — trascrivendo diversamente: Vari vari burkuzari — nel momento in cui la sposa esce dalla chiesa, dopo la celebrazione della liturgia della Messa, allorché si svolge il cerimoniale dell'offerta del vino da parte del compare e si pratica la rottura della bottiglia, dopo che gli sposi ne avevano bevuto, all’augurio Gjacu arbresh i sprishur rroft e shtoft [Il sangue albanese disperso viva e cresca] (Di Lena 1972: 105). Altri studiosi - diversamente, e più coerentemente con l’annotazione del glottologo goriziano - collocano l’esecuzione all’arrivo della sposa in chiesa, prima tappa dopo l’uscita dalla casa paterna, estendendo l’interpretazione a tutte le comunità arbéreshe molisane. Per un più preciso posizionamento cerimoniale, si è tentato un confronto tra diverse fonti — è disponibile un consistente repertorio di trascrizioni —, prendendo in considerazione alcune espressioni presenti nei versi cantati; è stato possibile, perciò, individuare due versioni distinte, caratterizzate da uno stesso incipit, che, nel corso degli anni, sembrano essersi fuse in un testo unitario. Se ne propone una valutazione nella tavola sottostante, in cui si indicano le fonti relative, le denominazioni (coincidenti con l’incipit del testo verbale) e traduzioni come proposte dagli autori: da queste è possibile desumere le relative indicazioni di genere. Il canto è fra i più conosciuti e diffusi ancora oggi e risulta essere fra quelli maggiormente rivisitati e proposti dai gruppi di revival della canzone arbéreshe molisana. G. I. Ascoli (Testo A) Vdge vdge kurkussdge_______Bella bella vezzosa G. De Rada (Testo A) Vale vale tórcuzale Traduzione incerta M. Lambertz (Testo B) 2i Vaghe vaghe Kurkussaghe Ringel Ringel Reihe 39 Vincenzo Lombardi G. M. Di Lena (Testo A) Vari vari kurkuzari Danza danza intrecciata a corda G. Mastronardi (Testo A e B)24 Vare vare terkuzare Danza danza a forma di corda S. Licursi (Testo A+B) [Licursi 1989] Vare vare t'érkuzare Danza danza in forma di corda Kamastra/Qifti (Testo A+B) [Kamastra e Qifti 2004] Valle valle terkuzale Danza danza intrecciata a corda (Versioni esaminate; incipit, traduzione e descrizione di genere; n. b.: i testi Li-cursi e Kamastra rappresentano la fusione delle due versioni, altrimenti distinte). Dopo aver accertato l’esistenza di due versioni e due tradizioni del canto, è possibile procedere a ulteriori considerazioni in merito al suo antico utilizzo. Nello scambio epistolare con Ascoli, De Rada scrive che una “canzoncina” con l’incipit Vale vale tòrcuzalr’ è entrata nell’uso nei giochi infantili26; aggiunge che lo stesso testo viene cantato durante la “ridda” che si svolge il giovedì prima delle nozze27. Sembra perciò plausibile dedurne un uso cerimoniale per quel particolare tipo di danza che prende il nome di valljal2S, presso le comunità italo-albanesi. Si svolgeva in particolari occasioni: durante la settimana prima delle nozze, il giovedì, ma anche in altri giorni della java e nuses [settimana della sposa]; peraltro, la cerimonia del giovedì è dedicata al prelievo del corredo e alla vestizione del letto: è documentata da Errico Melillo, che descrive come la cerimonia venisse eseguita da donne che “van cantando canzoni in mezzo agli spari ed al suono di tamburini”29. La possibile definizione di genere del canto, inoltre, rinvia a una fase specifica del cerimoniale di nozze praticato a Montecilfone, allorché con la tèrkuza [fune]30 veniva sbarrato il percorso verso la chiesa alla sposa che provenisse da altro luogo. Il cerimoniale, che aveva un corrispettivo per la sposa che prendeva marito fuori dal luogo di residenza31, marcava assai nettamente le appartenenze, indice possibile di comportamenti sociali improntati a prudenza e scarsa permeabilità, sia all’interno che verso l’esterno, presso co- 40 Gli studi sulle espressioni arbèreshe del Molise munita minoritarie e demograficamente assai circoscritte (Di Lena 1983). La riduzione — negli ultimi decenni - di non poche differenze fra le diverse comunità arbèreshe molisane, ma soprattutto fra Lètinj e arbèreshe"'1, ha condotto verso una progressiva diminuzione delle necessità di separazione culturale/sociale/familiare, con conseguente attenuazione della rigidità e complessità dei rituali e dei canti relativi33: in questo senso, perciò, si può intendere l’attuale stato di persistenza dei due testi ormai fusi insieme ed eseguiti sulla stessa melodia34, pur conosciuti con titoli diversi ( Valle valle e Vare vare) che conservano traccia delle differenze precedenti. Inoltre, considerando che l’incipit comune alle due versioni comprende un riferimento sia alla danza, sia alla corda (tèrkuza) - dalla combinazione di questi due motivi, stando alle fonti, è forse possibile desumere il significato di danza intrecciata a forma di corda —, si può ragionevolmente collocare il canto in una azione coreutica realizzata durante il corteo nuziale verso la chiesa. Il primo testo {Testo A), riportato da Ascoli e poi da Di Lena, in tutte le versioni presenta come secondo verso Si-lezi lezi mesi (espressione non sense) e, oggi, è il solo a conservare una intonazione cantata. Il contesto narrativo fa riferimento al contratto matrimoniale [“per mia figlia mille ducati”] e alla provenienza da altri luoghi [“quando arriveremo in quelle pianure, quando arriveremo in quelle macchie”], per cui sembra plausibile riferirlo alfarrivo della sposa forestiera35. Sul Testo A sarebbe di particolare interesse un’analisi linguistica più attenta, nonché una collazione fra le diverse lezioni che presentano divergenze non piccole. Inoltre, sarebbe opportuno considerare maggiormente le due traduzioni che lo stesso Ascoli fornisce (1867 e 1877), le quali sembrano rappresentare significativamente il punto di vista cosiddetto “etnico”, ossia interno alla comunità; più volte, infatti, il ricercatore si trova costretto ad annotare: i Montecilfonesi volevano farmi dividere [...], mi dettarono [...], intendevano [...], traducevano [...], secondo l’ermeneutica di Montecilfone (Ascoli 1877: 72-74). Il contesto narrativo del Testo B36 conserva espressioni indirizzate alla sposa che sta per abbandonare la casa paterna, in funzione consolatoria 41 Vincenzo Lombardi [“Zitta sposa non piangere”], oppure in funzione esortativa, per l’abbandono della casa [“Prendi licenza da tua madre, da tuo padre, è suonata la terza campana, scendi sposa e va a sposare”]. Il testo sembra coerente con il canto eseguito dai convitati che aspettano la sposa, denominato “Il buon viaggio”, e collocato proprio in tale occasione rituale: “Quando la sposa esce definitivamente dalla casa paterna per recarsi in chiesa, i convitati cantano una canzone tradizionale albanese II buon viaggio, e si spara una lunga e forte batteria” (Melillo 1882: 3). Un altro testo, ancora connesso all’abbandono della casa paterna - potrebbe corrispondere anch’esso alla canzone conosciuta come II buon viaggio — è in un Canto nuziale, raccolto dalla “viva voce del popolo” e trascritto da Michele Marchiano; si tratta di Zdmi fighe te kèndòmi [Diamo principio al cantare]37; l’autore rileva che la “poesia nuziale [...] nella letteratura popolare delle colonie d’Italia ci si presenta molto mossa e, vorrei dire, molto saltellante” (Marchianò 1911: 78), con riferimento, si può ragionevolmente ritenere, all’azione coreutica in cui si eseguono i canti stessi. Peraltro, ad avvalorare il legame fra canto e danza, oltre l’esplicito riferimento contenuto nei titoli e traduzioni proposti dai diversi autori, concorre la versione che raccoglie e pubblica Maximilian Lambertz dopo la sua visita alle comunità molisane compiuta fra il 1913 ed il 191438. Il ricercatore che, probabilmente, ha modo di verificare sul posto la collocazione cerimoniale del canto, trascrive l’incipit Vaghe vaghe Kurkussaghe e traduce in tedesco Ringel Ringel Reihe (il sostantivo Ringel può essere inteso come piccolo anello, anellino, cerchietto; Reihe sta per fila). La traduzione tedesca non sembra possa essere intesa in senso letterale, ma rimanda a un significato diverso e più ampio della semplice traduzione dell’incipit39. Lambertz, avendo probabilmente assistito direttamente a una vallja, può aver sintetizzato e inteso rappresentare, nel titolo proposto, entrambi gli elementi strutturali della danza (la fila e il cerchio sono, infatti, le due figure coreutiche della vallja); inoltre, il riferimento possibile a piccoli cerchi (Ringel) disposti in fila (Reihe) rinvia alla figura reale e coreutica della catena, immagine presente nella indicazione di genere ricorrente in alcune fonti: “danza intrecciata a forma di corda”40. Infine, non 42 42 Gli studi sulle espressioni arbéreshe del Molise sono disponibili ulteriori elementi che permettano di valutare le trasformazioni e ibridazioni occorse in merito alle espressioni in esame, sia per quanto concerne l’esecuzione musicale41 che per l’azione coreutica42. Attualmente, il testo — corrispondente, come s’è detto, alla fusione dei due testi tradizionali — è cantato in forma dialogica: si alternano le voci corrispondenti ai vari personaggi del “dramma” (la sposa, il padre, la madre, i familiari [coro]), con modalità antifonali di esecuzione che ricorrono frequentemente nelle danze cantate d’Albania (Sokoli 1958). 3. Canti di fidanzamento e di nozze: il tamburello e altri strumenti Nella tradizione arbéreshe, il periodo del fidanzamento e i rituali di nozze (Di Lena 1972: 94-108; Mastronardi 1991: 3-6; 2000 e 2000a) sono densi di pratiche cerimoniali accompagnate da canti, spesso accomunati da formule e stereotipi verbali e da medesime melodie. I versi presenti in molti canti di fidanzamento — in particolare il gruppo di varianti legate al testo di Portocannone Dish béja nje varkette trami [Vorrei fare una barchetta di rame] (Cirese 1957: 138-139), corrispondente al brano Dish bé-ja nje varket rami pubblicato in questa sede (CD/tr. 36) — contengono motivi (la benedizione a padre e madre, a padrino e madrina, all’ambasciatore e a chi lo ha mandato) che presuppongono un uso assai esteso, come indica Nicola Savino (Cirese 1957: 157), in varie occasioni del rituale di nozze; questo, sommariamente, comprendeva le seguenti fasi: a. adocchiamento [ Té rujtur] ; b. serenata [Kénka] (Cirese 1957: 138-141); c. lancio del rametto fiorito [Féstuka]*3; d. richiesta di fidanzamento da parte degli ambasciatori (Cirese 1957: 138); e. richiesta ufficiale e consegna dell’anello; f. accettazione del partito da parte dei genitori; g. entrata dello sposo; h. scambio di velo e fazzoletto. Vincenzo Lombardi Nella settimana prima del vunj kuror [mettere corona], secondo le modalità previste dal rito greco, le cerimonie si concentrano in alcuni giorni come il mercoledì, il giovedì e il sabato. Il rituale del giovedì prima delle nozze, oltre alla stima, prelievo e trasporto pubblico del corredo, prevedeva un’altra delicata operazione, la vestizione del letto, peraltro diffusa e praticata non solo nelle comunità arbereshe, ma anche in tutta l’area molisana (Cirese E. 1953: 203-204). Sono stati raccolti molti testi verbali legati a questo momento del rituale nuziale, a Portocanno-ne (Marchiano 1912: 158-161) e, soprattutto a Campomarino (cfr. le molte versioni del “canto della rondinella”)44. In numerose fonti concernenti le diverse fasi del rituale di fidanzamento e nozze emergono tracce e testimonianze più o meno esplicite sull’uso del tamburo a cornice come strumento per l’accompagnamento del canto e della danza45. Nel secondo volume della Raccolta I canti popolari del Molise, Cirese segnala di aver registrato a Ururi un canto per “coro con accompagnamento di tamburello e gridi: buumt', utilizzato per la preparazione del letto nuziale. Poco oltre scrive: “Non possiamo dare sfortunatamente la trascrizione” (Cirese 1957: 185); si tratta del brano E zemra ime ni qet qet [Il mio cuore sta in silenzio], ora pubblicato in questa sede (CD/tr. 40). L’accompagnamento del tamburello è documentato anche per il canto della vestizione della sposa: “Si cantava, con accompagnamento di tamburelli, mentre si procedeva a vestire la sposa” (Cirese 1957: 164-165, 181), anche se non appare eseguito così nella documentazione sonora prodotta nel presente volume (CD/tr. 26). Tale pratica — che Cirese descrive come “particolare” — ricorre in altri brani pubblicati in questa sede, che, attualmente, i membri delle comunità considerano genericamente quali canti d’amore46: il tamburello è presente per Ururi in Mem mem ke zèmèra m’u plas — e [Oh mamma oh mamma che il cuore mi si è spaccato] (CD/tr. 29) e per Portocannone in Dish hèja nje varket rami [Vorrei fare una barchetta di rame] (CD/tr. 36). Quest’ultimo canto, insieme a Dish dija gèkishe e g’ke—e [Vorrei sapere cosa avevi e cos’hai] (CD/tr. 34)47, eseguito senza tamburello, era utilizzato per l’esecuzione della serenata, durante la quale i cantori di- 44 Gli studi sulle espressioni arbèreshe del Molise chiaravano ai parenti della futura fidanzata il nome di colui che li aveva mandati (Di Lena 1972: 90). Le testimonianze dirette e le fonti bibliografiche e documentarie disponibili attestano l’uso del tamburello sia per i canti di fidanzamento, in particolare per la serenata, ambientati generalmente in esterno, sia per quelli del rituale privato di nozze, eseguiti in interno, con una spiccata azione femminile: nella serenata è documentata la partecipazione delle “addette cantatrici col solito tamburo” (Melillo 1882: 3); nella vestizione del letto o della sposa è attestata una esclusiva presenza femminile. Nell’esecuzione dei tre brani che appartengono al rituale di nozze proposti in questa sede (CD/tr. 26, 27, 40), la melodia e la combinazione testo verbale/musica sembrano essere le stesse, ma solo in un documento (CD/tr. 40) la voce risulta accompagnata dal tamburello48; all’ascolto, quest’ultima espressione appare come una sorta di ricostruzione, favorita dall’azione di gruppo, della fonosfera tipica del cerimoniale del giovedì prima delle nozze (efficacemente descritto da Melillo): questo “effetto” è ottenuto attraverso l’emissione del buum! prodotto dalle voci, imitazione delle “lunghe e forti batterie” di spari, più volte ricordate dai cronisti della vallja, che si svolgeva presso le comunità arbereshe. Lo sfasamento periodico - una sorta di eteroritmia - fra il ritmo del tamburello e quello del canto, che sembra essere libero e indipendente dalla percussione, insieme con l’eterofonia delle voci, sembrano rappresentare sia la profondità del campo sonoro che quella spaziale della scena; è come se il ritmo del tamburello fosse legato a esigenze motorie estranee alla melodia, mentre il canto si ponesse a corredo dell’attività rituale di vestizione del letto, svolta alfinterno della nuova casa dal gruppo delle donne: vi si alternano due diverse sequenze ritmiche, secondo una logica che sembra rispondere più coerentemente alle necessità coreuti-che dei passi della vallja, eseguita immediatamente prima o ancora in fase di svolgimento, all’esterno, durante la contemporanea vestizione del letto49. Ben diversa, al contrario, appare la chiara pulsazione binaria presente in altri due brani qui pubblicati (CD/tr. 29 e 36). La settimana delle nozze, prevedeva un altro importante momento ce- 45 Vincenzo Lombardi rimoniale, una sorta di serenata che a Montecilfone prendeva il nome di Nata Mira [Buona notte]. Del testo, che iniziava con le parole Nxè-mi nxémi ben kalashuni [Nzemi nzemi fa il colascione] (Di Lena 1972: 95-96), esiste una versione anche a Ururi (Fiorilli 2001: 59-60) e a Por-tocannone (Cirese 1957: 134-135, num. 548; Belusci 1992: 952). I testi suindicati offrono lo spunto per una riflessione di carattere organologico. Il termine albanese kalashuni, nelle fonti tradotto con chitarra o chitarrella, ricorre nei testi di molti altri canti; si riportano i seguenti: a. Portocannone Cèm cèm kalashuni skajeri [Zum zum chitarrella di cardo] (Cirese 1957: 134-135, num. 549); U dìshè bàhè nè kolashùn skalèri / E cordai càscia vùja gjith azàri [Io volli fare un colascione di cardo/E volli adattarvi le corde tutte d’acciaio] (Marchiano 1912); b. Campomarino Cem cèm kalashuni skajeri [Zum zum chitarrella di cardo] ; Cèm cèm kalashuni bèn [Zum zum la chitarrella fa] (Lambertz 1948, I: 359 e Mastronardi 1991: 80-81); c. Ururi Dish bèja njè Kalashum akaeri e kordat dish ja vuja [Vorrei fare una chitarra e le corde vorrei mettere tutte d’acciaio] (Fiorilli 2001: 62). Come già accertato per altre aree molisane50, simili versi costituiscono una traccia della diffusione di un cordofono chiamato colascione, anche se sembra diffìcile ricondurlo allo strumento correntemente così denominato (Fugazzotto e Palmieri 1994; Simeoni e Tucci 1991: 326-329, 468). La ricorrente presenza del termine kalashuni nei canti arbèreshé, induce a pensare alla presenza di uno strumento a corde presso le comunità alba-nofone molisane51 dell’antica Capitanata52, da tempo uscito dall’uso e non più rilevabile sul terreno: i testi verbali conservati suggeriscono l’idea di un cordofono53 costruito con materiali vegetali (cardo), e richiamano da vicino uno strumento albanese costruito con la canna della pianta del mais, denominato Tingerringe (o Rringetinge)^, con procedimento onomatopeico analogo a quanto emerge nei versi arbèreshé. 46 Gli studi sulle espressioni arbéreshe del Molise 4. Il matrimonio di Costantino L’ultimo testo trascritto da Ascoli, raccolto “da un simpatico vecchio di Portocannone (Gaetano Acciajo)”, rappresenta una “lezione compiuta della canzone di Costantino il piccolo; compiuta ma assai povera, e non già per semplicità nativa [...] pur può piacere la rapidità della chiusa” (Ascoli 1877: 74-75)55. Pertanto Ascoli ritiene di non riportare l’intero testo, in nessuna delle due edizioni del suo saggio, ma di trascrivere solo la “rapida chiusa”: Ku aruri ta rùvza mdd’e prdpa prdpa o ju buljdr Kostantini namurati i pari56 Nelle tradizioni delle comunità arbereshe del Molise la canzone di Costantino il piccolo sembra essere ben rappresentata. I versi iniziali della canzone narrativa sono raccolti da Cirese nel 1954 a Ururi (Cirese 1957: 148-149, num. 574); nella documentazione pubblicata in questa sede i versi sono cantati da Rosaria Jannacci (CD/tr. 28). Un’ulteriore versione che, in aggiunta alle varianti di trascrizione, presenta due versi addizionali (Eg bir e pag urdten / e tre vjet qofsh 'én tre dit [Va o figlio sii benedetto / e tre anni siano tre giorni]), è riportata, ancora per Ururi, da Giuseppe Fiorilli (2001: 78); ancora un’altra versione, piuttosto lunga, è stata raccolta a Campomarino, pubblicata con corredo di trascrizione musicale57. Tutti gli autori che ne riportano il testo lo considerano appartenente al repertorio epico. Cirese lo inserisce nel gruppo dei Canti d’amore e di nostalgia (Cirese 1957: 134-149); nella scheda d’archivio che accompagna la Raccolta 23 è denominato Canzone narrativa (CD/tr. 28); Giannino Mastronardi lo include nei Canti epici. In questa sede (CD/tr. 28), la canzone E Kostandini i vogel [Costantino il piccolo] è cantata su una melodia comune ai canti del rituale di nozze ururese (CD/tr. 26-27, 40): è possibile, perciò, evidenziare un uso del testo all’interno di una diversa collocazione cerimoniale, piuttosto che pensare a un errore di esecuzione o a una semplice coincidenza; né sembra ca- 47 Vincenzo Lombardi suale che l’informatrice proponga Costantino il piccolo subito dopo due canti di nozze, e prima di un gruppo di canti d’amore. Tuttavia, qualche dubbio sulla ipotesi del “riutilizzo” in altro ambito cerimoniale è posto dalla versione conservata a Campomarino: un’altra struttura e una maggiore lunghezza del testo — che pure comprende nella parte finale i tre versi raccolti da Ascoli a Portocannone — sono abbinati anche ad una diversa melodia (Mastronardi 1991: 92-95, 111); il che consente di immaginare una persistente afferenza del testo al repertorio narrativo. Il confronto con le tradizioni arbéreshe di altre regioni italiane permette di leggere in altra luce la circostanza: presso le comunità arbéreshe di Basilicata, i canti del ciclo di Costantino risulta fossero preferiti per la vallja del giovedì sera (Scaldaferri 1994: 144), quindi rientravano pienamente nella ritualità della settimana della sposa (Java nuses/nusja). Analogamente, anche per le comunità molisane è possibile ipotizzare due versioni, due funzioni, e una diversa diffusione territoriale della canzone di Costantino il piccolo: da una parte si pone la tradizione di Ururi, che accomuna una versione (breve) del canto con la melodia dei canti del cerimoniale di nozze; dall’altra, la tradizione di canto epico, presente a Campomarino e Portocannone58. I canti di nozze (partenza e vestizione della sposa, preparazione del letto ecc.), benché già nel 1954 fossero in fase di decadenza, assumono un particolare rilievo nella Raccolta 23, in quanto costituiscono una testimonianza sonora piuttosto rara59 e rappresentano una traccia evidente del complesso rituale, come era praticato nella cultura arbéreshe. Errico Melillo60 è fra i primi a descriverne, anche se parzialmente, alcune caratteristiche. In uno dei suoi articoli dedicati alle costumanze delle comunità arbéreshe riferisce come, agli occhi di un osservatore esterno, “il matrimonio, la nascita, il ballo, la morte vanno contrassegnati da riti originalissimi” (Melillo 1882: 3); cita gli usi musicali di momenti specifici del rituale: la canzone del Buon viaggio — di cui s’è detto — e la serenata del sabato (Kurora); così descrive gli usi che connotavano il sabato che precede le nozze: “Dopo una lauta cena, alla quale lo sposo invita i suoi parenti [...] l’allegra comitiva preceduta da suonatori ed addette cantatri- 48 Gli studi sulle espressioni arbèreshe del Molise ci, col solito tamburo, va a cantare, sotto le finestre della casa della sposa, la immancabile canzone, detta Mai tonata [...] che cos’è questa canzone? [...] per i concetti e per la tonalità è simile ad una nenia prolungata e grave, anziché ad un inno di gioia” (Melillo 1882: 3). L’articolato rituale del sabato - di cui attualmente restano solo sparute tracce — era scandito da numerose azioni, che può essere utile ricordare in questa sede: a. intronizzazione della sposa per comporre le kèrsche'é [trecce] ; per questa operazione era previsto il canto Mirrni, mirriti kreherthin [Prendete, prendete il pettine] (Di Lena 1983: 637); b. cena a casa dello sposo, che invita i parenti e i testimoni; c. corteo musicale verso casa della sposa, preceduto “da suonatori ed addette cantatrici, col solito tamburo”; d. serenata a casa della sposa, detta Maitonata (Melillo 1882: 3, Di Lena 1972: 99-100, Mastronardi 1991: 10, Cirese 1937: 164-165, num. 594); nella tradizione di Montecilfone si tratta di un canto responso riale (Exba ka riusi ti do veg [E già dallo sposo tu vuoi andare]) fra una voce guida e un coro femminile (Di Lena 1972: 99-100); e. entrata della comitiva in casa della sposa, con festa e ballo (Melillo 1882: 3); f. restituzione dell’abito nuziale da parte dello sposo (Mastronardi 1991: 4). Infine, si segnala che il testo per la Maitonata di Montecilfone — una variante del quale ha lo stesso uso a Campomarino (Mastronardi 1991: 10) - è simile a quello cantato per l’uscita della sposa dalla casa paterna, documentato da Cirese (Cirese 1957: 164, num. 596 e 596a): in questa sede se ne pubblica il documento sonoro relativo (E xha ke nuse ti do veg [E giacché sposa tu vuoi andare], CD/tr. 27). 5. Morte, matrimonio e nascita Alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, presso le comunità arbé-reshe molisane, si conservava ancora memoria di un canto per l’uscita 49 Vincenzo Lombardi suale che l’informatrice proponga Costantino il piccolo subito dopo due canti di nozze, e prima di un gruppo di canti d’amore. Tuttavia, qualche dubbio sulla ipotesi del “riutilizzo” in altro ambito cerimoniale è posto dalla versione conservata a Campomarino: un’altra struttura e una maggiore lunghezza del testo — che pure comprende nella parte finale i tre versi raccolti da Ascoli a Portocannone — sono abbinati anche ad una diversa melodia (Mastronardi 1991: 92-95, 111); il che consente di immaginare una persistente afferenza del testo al repertorio narrativo. Il confronto con le tradizioni arbéreshe di altre regioni italiane permette di leggere in altra luce la circostanza: presso le comunità arbéreshe di Basilicata, i canti del ciclo di Costantino risulta fossero preferiti per la vallja del giovedì sera (Scaldaferri 1994: 144), quindi rientravano pienamente nella ritualità della settimana della sposa (java nuses/nusjd). Analogamente, anche per le comunità molisane è possibile ipotizzare due versioni, due funzioni, e una diversa diffusione territoriale della canzone di Costantino il piccolo: da una parte si pone la tradizione di Ururi, che accomuna una versione (breve) del canto con la melodia dei canti del cerimoniale di nozze; dall’altra, la tradizione di canto epico, presente a Campomarino e Portocannone58. I canti di nozze (partenza e vestizione della sposa, preparazione del letto ecc.), benché già nel 1954 fossero in fase di decadenza, assumono un particolare rilievo nella Raccolta 23, in quanto costituiscono una testimonianza sonora piuttosto rara59 e rappresentano una traccia evidente del complesso rituale, come era praticato nella cultura arbéreshe. Errico Melillo60 è fra i primi a descriverne, anche se parzialmente, alcune caratteristiche. In uno dei suoi articoli dedicati alle costumanze delle comunità arbéreshe riferisce come, agli occhi di un osservatore esterno, “il matrimonio, la nascita, il ballo, la morte vanno contrassegnati da riti originalissimi” (Melillo 1882: 3); cita gli usi musicali di momenti specifici del rituale: la canzone del Buon viaggio — di cui s’è detto - e la serenata del sabato (Kurora); così descrive gli usi che connotavano il sabato che precede le nozze: “Dopo una lauta cena, alla quale lo sposo invita i suoi parenti [...] l’allegra comitiva preceduta da suonatori ed addette cantatri- 48 Gli studi sulle espressioni arbèreshe del Molise ci, col solito tamburo, va a cantare, sotto le finestre della casa della sposa, la immancabile canzone, detta Mai tonata [...] che cos’è questa canzone? [...] per i concetti e per la tonalità è simile ad una nenia prolungata e grave, anziché ad un inno di gioia” (Melillo 1882: 3). L’articolato rituale del sabato — di cui attualmente restano solo sparute tracce — era scandito da numerose azioni, che può essere utile ricordare in questa sede: a. intronizzazione della sposa per comporre le kerscheè [trecce] ; per questa operazione era previsto il canto Mirrni, mirrni krehèrthin [Prendete, prendete il pettine] (Di Lena 1983: 637); b. cena a casa dello sposo, che invita i parenti e i testimoni; c. corteo musicale verso casa della sposa, preceduto “da suonatori ed addette cantatrici, col solito tamburo”; d. serenata a casa della sposa, detta Maitonata (Melillo 1882: 3, Di Lena 1972: 99-100, Mastronardi 1991: 10, Cirese 1957: 164-165, num. 594); nella tradizione di Montecilfone si tratta di un canto re-sponsoriale (Exha ka nasi ti do veg [E già dallo sposo tu vuoi andare]) fra una voce guida e un coro femminile (Di Lena 1972: 99-100); e. entrata della comitiva in casa della sposa, con festa e ballo (Melillo 1882: 3); f. restituzione dell’abito nuziale da parte dello sposo (Mastronardi 1991: 4). Infine, si segnala che il testo per la Maitonata di Montecilfone — una variante del quale ha lo stesso uso a Campomarino (Mastronardi 1991: 10) - è simile a quello cantato per l’uscita della sposa dalla casa paterna, documentato da Cirese (Cirese 1957: 164, num. 596 e 596a): in questa sede se ne pubblica il documento sonoro relativo {E xha ke nuse ti do veg [E giacché sposa tu vuoi andare], CD/tr. 27). 5. Morte, matrimonio e nascita Alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, presso le comunità arbé-reshe molisane, si conservava ancora memoria di un canto per l’uscita 49 49 Vincenzo Lombardi della sposa, che era inteso “anche come lamento funebre per la morte delle vergini, o comunque dei figli giovani” (Cirese 1957: 181 )61 ; inoltre è attestato come il canto, “nel suo duplice uso per nozze e per funerali”, fosse ancora avvertito dagli arbèreshé quale strumento atto ad esprimere la “misura del sentimento di reale perdita” (Savino 1955: 54). La tradizione di tale pratica, che risultava ancora viva solo alcuni decenni prima, sembra segnare una netta differenza, e un preciso tratto identitario, rispetto alla cultura dei Létinj-, gli osservatori esterni, infatti, appaiono assai colpiti: “la morte fra gli albanesi si piange in modo assai differente” (Melillo 1882: 3). Nei suoi articoli Errico Melillo racconta che “quando muore un giovinetto, una donzella, sono più i canti e gli spari che le lacrime” e osserva che “dopo aver adagiato il cadavere nel mezzo della casa si canta la canzone degli sponsali” (Melillo 1882: 3). Le differenze fra modalità così diverse del “pianto”, ancora nettamente marcate a fine Ottocento, e gli effetti provocati sugli osservatori Létinj, possono dare la misura di quale reazione potesse suscitare in tempi ancora più remoti la lamentazione, soprattutto se a registrarne lo svolgimento era un alto prelato della Chiesa cattolica. Il vescovo di Latino, Tria, dopo una visita a Portocannone nel 1734, nonostante vari provvedimenti sinodali, ancora trovava che l’“abuso delle donne [...] in occasioni de’ funerali” era tale da “costringerlo” a emanare un apposito decreto. Dispose, infatti, la sospensione a Divinis per quei sacerdoti che non avessero interrotto la funzione nel caso in cui le donne continuassero “ad inquietare le funzioni ecclesiastiche con pianti, lamenti, strepiti e segni simili di gentilità” (Tria 1989: 453-454). Per contro, negli anni Trenta del Novecento, Eqrem C^abej rilevava che i canti funebri e le “canzoni albanesi” del matrimonio avevano un carattere lirico-drammatico, che, per queste ultime, derivava dalle “scene simulate di un rapimento della sposa” (C^abej 1999: 73), azione rituale viva e largamente praticata, ancora fino al alcuni decenni orsono, presso le comunità arbereshe, anche in Molise. I tratti identitari delle comunità arbereshe molisane risiedevano, e solo in parte risiedono ancora, anche nelle caratteristiche linguistico-musi-cali che, nei decenni successivi alla visita di Diego Carpitella e Alberto 50 Gli studi sulle espressioni arbèreshe del Molise Mario Cirese avvenuta nel maggio 195462, si sono significativamente modificate. Da quanto segnala Papas Antonio Belusci (1992), dopo una ricognizione a Portocannone effettuata il 25 agosto del 1987, poco o nulla risulta rimasto vivo del patrimonio musicale della metà degli anni Cinquanta, ossia di quel sapere musicale fatto di profili melodici peculiari, scale, emissione vocale, modi di esecuzione, di quei glissando, rubato, portamenti e singhiozzi che, come scriveva Diego Carpitella: “sono l’indice di una realtà [...] e di una divaricazione, di una distanza abissale esistente [...] tra cultura tradizionale [...] e cultura colta e ufficiale” (Carpitella 1954: 5). Dall’ascolto delle registrazioni molisane del 1954 si può rilevare come il dato che segna maggiormente la differenza con la tradizione musicale romanza risieda essenzialmente nelle caratteristiche della vocalità. I modi della condotta vocale si sono rivelati il fattore di più schietta identità presso le comunità molisane di Ururi e Portocannone. Altri elementi costitutivi, come le caratteristiche melodiche, i sistemi scalari ecc., sono stati maggiormente permeati da reciproci scambi con le comunità romanze e hanno sostanzialmente avvicinato e accomunato le due tradizioni. Sono probabilmente i repertori più vicini alla sfera dei sentimenti familiari e intimi (ninna nanna, lamentazione, canti di nozze) a manifestare il maggior grado di conservazione e resistenza alle ibridazioni. Un’esperienza del tutto simile la sottolineava Diego Carpitella per le comunità di Basilicata e Calabria quando scriveva di aver rintracciato, fra i canti di nozze, una variante di danza la cui struttura ritmica e melodica sembrava simile al tema principale delle Nozze di Stravinskij, e, fra le lamentazioni funebri, una variante di un lamento raccolto da Bartók in Transilvania negli anni Venti (Carpitella 1954). 6. Alcune caratteristiche musicali I quattro brani appartenenti al gruppo dei canti di nozze di Ururi (CD/tr. 26, 27, 28, 40) risultano accomunati dallo stesso profilo melodico. Dalla trascrizione del primo, che può rappresentare il gruppo, si può rilevare che: 51 Vincenzo Lombardi a. la melodia risulta basata su un pentacordo riconducibile a una modalità di tipo lidio (tritono e semitono); b. la struttura melodica è composta da due motivi discendenti {a-b: Es. 1); entrambi terminano con una rapidissima ascesa, quasi afona, della voce verso l’alto; in uno dei brani esaminati (CD/tr. 40) si colloca in questa posizione l’intonazione corale e onomatopeica (buum\) già descritta; i due motivi melodici sostengono un solo verso, che viene iterato, dapprima nell’emistichio iniziale, quindi interamente da capo; il procedimento, con l’inserimento — pressoché costante — di una zeppa (e) a ogni ripresa di verso, viene riproposto per l’intero brano, cosi come in tutti i brani del gruppo (CD/tr. 26, 27, 28, 40); c. la relazione melodia-verso può essere schematizzata nel modo seguente: motivo a = E mirrni linjezènè tre brac / e mirrni linjezen motivo b = e mirrni linjèzené tre brace ; d. Xambitus (l’escursione fra altezza più grave e più acuta) del motivo iniziale è di sesta; e. il modulo melodico (i suoni che ricorrono nella melodia annotati nell’ordine in cui occorrono) rappresenta l’andamento discendente rilevato63; alcuni suoni cantati nel motivo conclusivo mostrano un’intonazione mobile64. Registro acuto e tesa emissione vocale connotano l’esecuzione; la condotta melodica risulta densa di micro-ornamentazioni, non riscontrabile, almeno in tale portata, nella tradizione romanza molisana. Una condizione simile si rileva nella lamentazione proposta in questa sede (vajtim in arbéresh [CD/tr. 47]). Nel 1954 i modi performativi del vajtim non dovevano essere molto diversi da come venivano praticati quindici anni prima, quando Ernest Koliqi affermava che “molta somiglianza hanno le nenie ed i canti funebri italo-albanesi con quelli dell’Alta Albania” (Koliqi 1940: 338)65. Questo lamento (CD/tr. 47), “registrato dalla voce di una lamentatrice che talvolta si presta a piangere anche nei funerali di conoscenti” e del quale Cirese solo in parte trascrive il testo (1957: 168-169)66, è cantato anch’esso in una tessitura acuta e nello 52 Gli studi sulle espressioni arbèreshe del Molise - 3 5 a rt rt 3 43 a S o a T3 O C a « rt ’T3 u s I 3 S 5 •—1 ‘t» 13 -a J "9 è ^ d O 1 8 111 -3 J s g | § .'3 .'3 J3 S f .3 ? a 1 1 11 § § 1 S S 1 5 g 8. 8. g t > \ / X 'fi e»■ 5. E la còccia dell’Incornata 1.19 (canto devozionale, per la festa dell’Incoronata) Esecutori non identificati E la còccia di l’Incórnata e tutti l’adori e tutti l’adori e l’adore ch’è morto Gesù l’Incórnata aiutaci tu e l’adore ch’è morto Gesù l’Incórnata aiutaci tu E la fronte di l’Incórnata 106 I documenti sonori e tutti l’adore e tutti l’adore e l’adora ch’è morto Gesù l’Incórnata aiutaci tu e l’adora ch’è morto Gesù l’Incórnata aiutaci tu E lu nase de l’Incórnata e tutti l’adori e tutti l’adori e l’adora ch’è morto Gesù rincórnata aiutaci tu. 6. E una sò le stelle (canto devozionale, per la festa dell’Incoronata) Esecutori non identificati E una sò le stelle Maria è la più bella è la più bella che ci sia facci grazia a noi Maria E due sò le stelle Maria è la più bella è la più bella che ci sia facci grazia a noi Maria. 7. E San Michele Arcangelo (canto devozionale, per la festa di San Michele Arcangelo) Esecutori non identificati E San Michele Arcangelo sta sott’a na muntagna ci chiov’e non si bagna 107 1.01 0.44 Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi pé ll’amore di Gesù ci chiov’e non s’abbagna pé ll’amore di Gesù. 8. Rinate fanne nòve 1.37 (maitenata, canto augurale di Capodanno) Mario Ciarlariello, Carmine Antonecchia (voci), Giovanni Festa (zampogna) Rinate Fanne nove chiène de allégrije consola all’anime afflitti a noi lu còre a noi lu core accuse! cantà co ló bóngiòrne e ‘1 bon felice o (v)anne accocchia accocchia vanne s’ d’ie zitelle chi nu bicchijr’in mani ci vonne ddà da bèvere accocchia accocchia vianne s’ du’ zitelle chi prima si marite mó si veda rinate Fanne nòve chiène di allégrije come sò contente ji ca mi trovo mmezz’a sta compagnia. È rinato l’anno nuovo pieno di allegria / consola le anime afflitte e a noi il cuore / a noi il cuore cosi canta / con il buon giorno e il buon felice anno / a coppia a coppia vanno queste due zitelle / con un bicchiere in mano ci vogliono dar da bere / a coppia a coppia vanno queste due zitelle / chi prima si marita ora si vede / è rinato Fanno nuovo pieno di allegria / come son contento io che mi trovo in mezzo a questa compagnia. 9. E tu quanta vòlte mmé ci fai venire 4.37 (serenata) Amelio Ciarlariello, Paolo Ciarlariello (voci), Giovanni Festa (zampogna) E tu quanta vòlte mmé ci fai venire e di sotto alla tua finestra 108 I documenti sonori di sotto alla tua finestra e di sotto alla finestra a sospirare E a sospirane vó sospirare e sotto alla tua finè sotto alla sua finestr’i cò sospirare E ci so venut’e mi e ci son fatto vècchio e non ti ho vedute una vòlta e i non t’hò veduto na volt’affacciare E ’n ti sei affacciate non te sei affaccià nen sol’una volta nun solo na vóju nun soli una volta non ti sei affacciata E affacciati una vói e per gentilezz’e con dua parola ti voglio e con dua parola ti vogli c’addommannare E questo lo canto a tte nò mazze di rose e come jè ‘1 cor gentil’e com’è jè ‘1 core gentile e com’è jè ‘1 core gentili la cara sposa E la rai voi canto per voi la ghienda stella e lu giórno ripari di sol’e lu giórno ripari di sole lu giórno ripari di sol’i la notti na stella. E tu quante volte mi ci fai venire sotto alla tua finestra a sospirare / Ci sono venuto e sono diventato vecchio, e non ti ho visto una sola volta affacciarti / E affacciati una volta, per gentilezza, con sole due parole ti voglio fare una domanda / E questo canto per te è come un mazzo di rose, e come è gentile il cuore della cara sposa / E canto per voi la stella bionda, di giorno appari come un sole e di notte come una stella. 10. Tenghi nò faviceVLa 1.32 (canto della mietitura) Rosina Passero, Mario Ciarlariello (voci) Tenghi nà favicella nin pesa ’n’ondre la sera mi fa jé de manze manza Mena mena vorja di marine 109 Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi tu mena mena vorje di marine Rinfresc’a Nenna mia donta camln e E quanti n’eggi vist’i stammatine la bella mia non la vego ancora Vutta carrira e vuttami stu cor mó ti la vuoje dà na ’ngarratura E l eggi viste allà a Santa Marie je ancornicchiat’ a l’avitare maggiore. Tengo una piccola falce che non pesa un’oncia / la sera mi fa andare stanco stanco / Tira tira bora di marina / tu tira tira bora di marina / Rinfresca a Nenna mia dove cammina / E quanti ne ho visti io questa mattina / la bella mia non la vedo ancora / Spingi carriere, spingimi questo cuore / ora te la voglio dare una dritta / L’ho vista lì a Santa Maria / è stretta ad un angolo all’altare maggiore. 11. Vaglie alla vignarèlla 1.26 (canto di lavoro) Rosina Sollazzo, Concertina Bagnoli, Teresa Bellucci, Rosina Passero (voci) Vaglie alla vignarèlla a coglie la’nzalata povera Nenna z’è malata di freve nen ce l’ha povera Nenna z’è malata di freva nen ni tè Dòppe di nove mese si sa la malatia je papà papà portami via portem’all’ospedà papà portemi via portem’all’ospedà. Vado alla vignarèlla / a cogliere l’insalata / povera Nenna si è ammalata, di febbre non ne ha / povera Nenna si è ammalata, di febbre non ne ha / Dopo di nove me- 110 I documenti sonori si / si sa la malattia / sii papà papà portami via / portami all’ospedale / papà portami via / portami all’ospedale. 12. Gente de Frusinone signur’e cuntadine 1.35 (canto scherzoso, “La morte du ciucciu”) Rosina Sollazzo, Concertina Bagnoli, Teresa Beliucci, Rosina Passero (voci) Gente di Frusinone signur’e cuntadine ve facce nu bell’inchìne venìtim’ascoltà vi voglio raccontare la dolorosa storia lu ciucce è iute ‘n gloria tre o quattre juorne fa chi tira pé la coda tira pé la capezza mamma che tenerezza l’è jut’a sutterrà i-o i-o e ciucciarielle di stu core e chi a de te se ne pò scurdà i-o i-o quand’iv’agliu muline che la vardèlla nova mmezz’a la via nova carétte u ciucce mié i-o i-o e ciucciariélle di stu cor’e chi a de te se ne vò scurdà. Gente di Frosinone (Frosoloneì) / signori e contadini / vi faccio un bell’inchino / e venite ad ascoltarmi / vi voglio raccontare / una dolorosa storia: / il mio somaro è morto / da tre o quattro giorni / chi tira per la coda / chi per la cavezza / mamma che tenerezza / sono andato a sotterrarlo / ciucciariello di questo cuore / chi 111 Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi di te si può scordare? / Quando andavi al mulino / con la bardatura nuova / nel mezzo della strada nuova / cadde il ciuccio mio, ciucciariello di questo cuore chi di te si può scordare? 13. Chi è chi è che bussa 1.17 (canzone narrativa) Rosina Sollazzo, Concertina Bagnoli, Teresa Beliucci, Rosina Passero (voci) Chi è chi è che bussa chi è chi è che bussa che bussa al mio porton chi è chi è che bussa chi è chi è che bussa che bussa al mio porton Só ‘1 marescial di Francia só ‘1 marescial di Francia in cerco ’1 tuo mari só ‘1 marescial di Francia só ‘1 marescial di Francia in cerca ’1 tuo mari Il mio marito è in guerra il mio marito è in guerra non possa più tornà il mio marit’è in guerra il mio marit’è in guerra non possa più tornà Il pane che lui mangia il pane che lui mangia 10 possa fa strozza 11 pane che lui mangia il pane che lui mangia lo possa fa strozzà. 112 I documenti sonori 14. C’erano tre sorelle 1.07 (canzone narrativa) Rosina Sollazzo, Concettina Bagnoli, Teresa Beliucci, Rosina Passero (voci) C’erano tre sorelle lagigolé c’erano tre sorelle la bella se ne va incontré lagigolé d amò c’erano tre sorelle e tutt’e tre d amò Ninetta è la più bella e lagigolé Ninetta è la più bella e la bella se ne va incontré lagigolé d’amò Ninetta è la più bella s’è mess’a navigà. 15. Signor capitano fateme nu favore 1-43 (canzone narrativa, “Cecilia”) Concettina Bagnoli (voce) Signor capitano fatimi nu favore Peppino mio è in prigiona fatelo riuscì Senti Cicilia bella lu favor’è fatto ti devo venir’a dormire e na notte affianca me Signor capitano mò vado ali cancèlle vado da Peppino mio bello se mi ci vò mandà È andatale cancèlle l’ha dett’al suo marito 113 Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi Io ti ci faccio andare salva la vita a me io ti ci faccio andare salva la vita a me Senti signor capitano prepara ru lettine con due lenzuola fine ci andiamo a riposà con due lenzuola fine ci andiamo a riposà. 16. Su su ballate 0.49 (canzone narrativa) Rosina Sollazzo, Concertina Bagnoli, Teresa Beliucci, Rosina Passero (voci) Su su ballate su su ballate che siete figlie da marita su su ballate su su ballate che siete figlie da marità No no no bballo io no no bballo che il primo amore sta a ffà il soldà no no n’abballo no no n’abballo che il primo amore sta a ffà il soldà. 17. Figlia di gran zignore (canzone narrativa, “La monachella”) Rosina Sollazzo, Concertina Bagnoli, Teresa Beliucci, Rosina Passero (voci) I documenti sonori per non soffrire il prim’amò s’è fatta moneca di gran dolo per non soffrire il prim’amò Doppo di nove mesi la munachèlla doppo di nove mesi la munachèlla scrisse una lettera al suo papà che nel convento non ci voglio stà. 18. S’ha mangiata la ’nzalatina 1.14 (canzone narrativa) Rosina Sollazzo, Concettina Bagnoli, Teresa Beliucci, Rosina Passero (voci) S’ha mangiato la nzalatina poverina poverina s’ha mangiata l’inzalatina poverina che dolór se morissi questa sera la faremo la faremo se morissi questa sera la faremo seppellì la faremo seppellire sotto l’ombra sotto l’ombra la faremo seppellire sotto l’ombra d’un bel fior. 19. L’aricamava nu fazzolètte 1.12 (canzone narrativa) Rosina Sollazzo, Concettina Bagnoli, Teresa Bellucci, Rosina Passero (voci) L’aricamava nu fazzolètte la violetta del prim’amò 115 Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi i so minute all’èrba asciutta o com’è brutt’a fare l’amò l’aricamava nu mandazine mó la Rosina chi cosa fa. Ricamava un fazzoletto / la violetta del primo amore / sono venuto nell’erba asciutta / come è brutto fare l’amore / ricamava un grembiule / adesso Rosina che cosa farà? 20. Trup trup truppitte 0.21 (filastrocca/conta per bambini) Rosina Sollazzo (voce) Trup trup truppitte ru cavall’e ru parapitte ru cavall’è dé ru Papa e quanta corna tè la crapa ne porta vintiquattre una du tre e quattr quattr la vaccarèlla e la luna jè cchiìx bbèlla chiù bbèlla ru cucurucù jisci tu e ciuma tu. Trup trup truppitte / il cavallo e il parapetto / il cavallo appartiene al Papa / e quante corna ha una capra? / ne porta ventiquattro / uno due tre e quattro / quattro la vaccarella / e la luna è più bella / più bella del cuculo / esci tu (la sorte ha scelto te) e conta tu (il bambino designato conta da solo, per un tempo convenuto, consentendo agli altri compagni di gioco di nascondersi adeguatamente). 116 I documenti sonori 21. E la partenza di Cristo 2.03 (canto devozionale, per la Passione di Cristo) Rosina Sollazzo, Concettina Bagnoli, Teresa Bellucci, Rosina Passero (voci) E la partenza di Cristo vogliamo dire e voi signori statel’ascoltare e quando Cristo aveva da partire con la sua madre si mis’a parlare perdona mio Dio mio Dio perdona perdona mio Dio perdona pietà. Mamma mamma io ci ho da partire Gerusalemme [...] questo viaggio e chi lo pò soffrire dammi la benedizione me ne voglio andare perdona mio Dio mio Dio perdona perdona mio Dio perdona pietà. 22. Quando Cristo andava per mare 0.55 (scongiuri: risipola, vermi, malocchio) esecutrice non identificata (voce) Quando Cristo andava per mare si alzavano i pastori cò una mazza e cò un bastone ‘ncuntrasse quella maldetta resibbele i resibbele maldetta dò te ne vaje ì me ne vad’in facci’a quel cristiano sangue midollo vuoglie cavà come un cane vuoglie fa spargere risponde san Pietro e san Paulo ammazzatela e buttatel’al mare non mi ammazzà signore maestro e un bel segreto 117 Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi ti voglio ’mparare oglio di verda oliva e penna di nera gallina ognietela tre volta vattene resibbela maldetta vattene resibbela maldetta San Giorgio crìa li viérm’e Dìe ce li caccia san Giorgio crìa li viérm’e Dìe ce li caccia san Giorgio crìa li viérm’e Dìe ce li caccia Dìe crìa li viérm’e san Giorgio ce li caccia Dìe crìa li viérm’e san Giorgio ce li caccia Dìe crìa li viérm’e san Giorgio ce li caccia Lunedì sante martedì sante mercoledì sante giovedì sante venerdì sante sabate sante Addeman’è Pasqua e tutti i vermi se ne cascane Occhje di lupe e core di lióne l’occhje triste che tt’enne viste l’occhje de la mamma cchiù di tutte pozzenaddevendàne próule ddue occhje t’enn’aducchiate tre sante t’enne aiutate Domine Padre Figli’e Spirito santo quest’è lu malocchie ch’i te nghiand. Quando Cristo andava per mare si alzavano i pastori con una mazza e un bastone / incontrò quella maledetta risipola e chiese: “Maledetta risipola, dove te ne vai?” / “Io me ne vado addosso a quell’uomo, gli voglio cavare sangue e midollo, lo voglio ridurre come un cane”. Rispondono i santi Pietro e Paolo: “Ammazzatela a buttatela in mare!”. Risponde: “Non mi ammazzare signore e maestro! Ti insegnerò un bel segreto: olio di olive verdi e penna di galllina nera, ungetela tre volte, vattene risipola maledetta”. / San Giorgio crea i vermi e Dio li espelle. Dio crea i vermi e san Giorgio li espelle. Lunedì santo, martedì santo, mercoledì santo, giovedì santo, venerdì santo, sabato santo, domani è Pasqua e tutti i vermi saranno espulsi. / Occhio 118 I documenti sonori di lupo e cuore di leone, gli occhi tristi, che ti hanno visto, gli occhi della mamma, più di tutti possano diventare polvere, due occhi ti hanno adocchiato, tre santi ti hanno aiutato. Domine Padre, Figlio e Spirito Santo questo è il malocchio che io ti incanto (che io neutralizzo). 23. Quanta bene mi ci fatte 1.09 (repuòte, lamento funebre) esecutrice non identificata (voce) Quanta bene mi ci fatte mea e mo ndonda tè ja ji circanne mo-ne meamma mè-ja meamma. Meamma, meamma mèja addulureata, meamma. Meamma, com’èja fa mò senza te meamma. Oh meamma andónda me né ja ji, andónda ja ji circanne mone ca ‘n t’aretrove cchiù-ne mamma. Oh mamma, meamma me-ja meamma e come l’ha putute fa-i meamma addulurata meamma. E che curagge forte ch’ha fatte meà e de lassarmi sola sola, mamma me-ja, meamma. Oh-i meamma, e ndonda tè a ji circanne mone ma-ma meamma me-ja meamma. Quanto bene mi hai fatto mamma / e ora dove ti devo andare a cercare adesso / mamma mia, mamma. / Mamma, mamma mia addolorata, mamma. / Mamma, come devo fare adesso, senza te mamma. / Oh mamma / dove me ne devo andare, dove ti devo andar cercando adesso che non ti ritrovo più mamma. / Oh mamma, mamma mia mamma / e come l’hai potuto fare mamma addolorata mamma. / E che coraggio forte che hai fatto mamma / e di lasciarmi sola sola, mamma mia, mamma. / Oh-i mamma, / e dove ti devo andare a cercare adesso mamma mamma mia, mamma. 119 Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi Ururi (CB), 2 Maggio 1954 24. Ni ni ni nin a kor 1.20 (ninna nanna) Rosaria Jannacci (voce) Ni ni ni nin a kor me mémén do flerézé me mèmèn do fler njé par ore - o. Njè paréz ore e njé par jurnate sa vete e vinj [me]ma sa vete e vinj [me] ma ka nje mbashate - o. E ni ni ni ni nin e fli ti bir o ke — e e fli ti bir o ke gjumi te rrin — o. Gjumi te rrin edhe té mandénon e si gja luleza - é. Ni ni ni nin stretto alla mamma vuole dormire / con la mamma vuole dormire un paio d’ore. / Un paio d’ore e un paio di giornate appena vado e vengo a mamma / appena vado e vengo a mamma da una commissione. / E ni ni ni ni e dormi tu o figlio / e dormi tu o figlio che il sonno ti fa crescere. / Il sonno ti fa crescere e ti conserva come il fiorellino. 25. E <;è bukurè djal méma 0.30 (filastrocca per far ballare i bambini) Rosaria Jannacci (voce) E fé bukuré djal méma rrin dal e dal fé bukur gjalet méma rrin dal e qet na na na fé bukuré djaléz — a. E fé bukuré djal e rritet bora k’ai mal - e k’ai mal i shkret e méma kishi njé gjalet - e néng a héngrém bé’ nga di tumac me ca léng — e léng me suket méma kishi njé gjalet - e. 120 I documenti sonori E che bel bambino la mamma alleva pian piano / che bel bimbo la mamma alleva piano e in silenzio / na na na che bel pargoletto. / E che bel bambino cresce la neve su quel monte / e su quel monte desolato la mamma aveva un bimbo / non l’abbiamo mangiato fa suvvia due tagliatelle con un po’ di sugo / sugo di ragù la mamma aveva un bimbo. 26. E mirrni linjèzèn tre brac 1.28 (canto di nozze, per la vestizione della sposa) Rosaria Jannacci (voce) E mirrni linjézene tre brac e mirrni linjézén e mirrni linjézene tre brace ke ka t’e vur nusja joné ke ka t’e vurè ke ka t’e vur qo nusja jone. E mirrni bustin me xhakunet e mirrni bustin e mirrni bustin me xhakunete e isht i rakamuor fin e isht i ra e isht i rakamuor fine e nusja joné i’ sinjurine e nusja jone e nusja jone i’ sinjurine. Prendetela la camicia di tre brazze / prendetela la camicia / prendetela la camicia di tre brazze / che deve metterla la nostra sposa / che deve metterla / che deve metterla questa nostra sposa. / Prendetelo il bustino con il giacchetto / prendetelo il bustino / prendetelo il bustino con il giacchetto / ed è ricamato finemente / ed è ri [carnato] / ed è ricamato finemente / e la nostra sposa è signorina / e la nostra sposa / e la nostra sposa è signorina. 121 Maurizio Agamennone e Vincenzo Lombardi 27. E xha ke nuse ti do veg 2.00 (canto di nozze, per la sposa che lascia la casa) Rosaria Jannacci (voce) E xha ke nuse ti do ve